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Jacobazzi: nascose prove pro Eni, il magistrato anti-Cav condannato a 8 mesi
09-10-2024, 08:28
Il processo contro i vertici dell'Eni venne condizionato dalle scelte dei pm milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro che, volontariamente, omisero di depositare prove a favore degli imputati, ad iniziare dall'amministratore delegato Claudio Descalzi e del suo predecessore Paolo Scaroni. Lo ha deciso ieri il tribunale di Brescia, presidente Roberto Spanò, che ha condannato i due magistrati ad otto mesi di prigione, pena sospesa, per omissione d'atti d'ufficio. Una condanna tutto sommato non eccessiva vista la gravità della loro condotta. È sufficiente ricordare che De Pasquale e Spadaro avevano chiesto per Descalzi, poi assolto con formula piena, ben otto annidi carcere. Quello che doveva essere il più grande processo per corruzione internazionale mai celebrato in Italia si è dunque rivelato un boomerang per le toghe milanesi. Nel mirino dei due pm era finita la licenza di esplorazione di un giacimento petrolifero in Nigeria, da parte di Eni e Shell, denominata Opl 245. Il costo dell'affare, un miliardo e trecento milioni di dollari, corrisposto dalle compagnie al governo di Abuja, secondo i pm lasciava intendere un maxi giro di mazzette. Al termine del dibattimento, i giudici avevano però stabilito che la realtà era molto diversa, assolvendo così tutti gli imputati. De Pasquale e Spadaro, da parte loro, non avevano depositato nel processo le prove, raccolte dal collega Paolo Storari, che avrebbero potuto portare subito all'assoluzione dei manager. Si trattava di vari documenti denominati “falsità Armanna”, dal nome di Vincenzo Armanna, ex manager licenziato dall'Eni, che Storari aveva trovato durante l'inchiesta parallela “Falso complotto Eni” su un presunto depistaggio ai danni dei magistrati che accusavano il colosso petrolifero, con al centro la figura dell'ex legale esterno della società, l'avvocato Piero Amara. Storari, in particolare, aveva dimostrato come le chat fra Armanna e Descalzi, in cui quest'ultimo si diceva pronto a riassumerlo dopo il licenziamento in cambio della ritrattazione dall'accusa di corruzione, fossero in realtà false perché quelle utenze non erano in uso ai manager Eni. Poi vi era il video di un incontro, avvenuto il 28 luglio 2014, che riprendeva quattro persone, fra cui Armanna e Amara, acquisito dalla Procura di Milano fin dal 12 aprile 2017 nell'ambito di scambi informativi con le polizie giudiziarie di Torino e Roma. Nel filmato, riferendosi all'Eni, Armanna parlava senza peli sulla lingua della «valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento». E due giorni dopo, puntuale, l'ex manager si presentò infatti da De Pasquale per accusare i vertici del Gruppo. Finito il primo grado in questo modo, De Pasquale e Spadaro non si erano arresi, facendo ricorso contro l'assoluzione. La pg Celestina Gravina era stata di diverso avviso, rinunciando invece all'appello e dichiarando che «questo processo deve finire perché non ha fondamento». Non va infine dimenticato il tentativo, quando era chiaro che l'assoluzione in primo grado era vicina, di costringere il presidente del collegio Marco Tremolada ad autosospendersi dal processo, facendo ammettere una testimonianza che lo avrebbe definito come persona «avvicinabile». Questo comportamento, all'inizio dell'anno, era stato sanzionato dal Consiglio superiore della magistratura che con 23 voti aveva ritenuto De Pasquale non idoneo a ricoprire l'incarico di procuratore aggiunto, avendo «reiteratamente esercitato la giurisdizione in modo non obiettivo né equo rispetto alle parti nonché senza senso della misura e della moderazione». «D'altra parte - sottolineò il Csm- la pervicacia dimostrata in tutte le sedi in cui è stato chiamato a illustrare il proprio operato è idonea a dimostrare come le condotte poste in essere, lungi dall'essere contingenti e occasionali, rappresentino un modus operandi consolidato e intimamente connesso al suo modo di intendere il ruolo ricoperto, proiettando, pertanto, un giudizio prognostico negativo sul possesso dei prerequisiti dell'imparzialità e dell'equilibrio». Ma i guai di De Pasquale non sono finiti. Sempre al Csm è pendente nei suoi confronti una pratica di incompatibilità ambientale e un procedimento disciplinare.
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