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L’odissea in treno, prigioniero delle zucche vuote
04-10-2025, 07:46
Per Nenni era “piazze piene, urne vuote”. Oggi, nell’epoca dei flottanti pro-Pal, è “zucche vuote e binari pieni”, di transenne, blocchi di cemento, violenti perdigiorno e di quei treni che se riescono a muoversi sbuffano a passo d’uomo. «Blocchiamo tutto!», gridavano i fannulloni che hanno bloccato la ferrovia a Firenze, nella zona delle Cure. Inutile bloccare i loro cervelli, tanto sono in sciopero permanente. Gli eroi oggi non sono i parlamentari e gli attivisti che tra balli e canti hanno prolungato l’estate fra Barcellona e Creta, girando alla larga da Cipro dove avrebbero potuto sbarcare pasta, riso e tonno per i disperanti di Gaza, viveri lasciati ondeggiare in cambusa. Te li do io gli aiuti umanitari! Gli eroi sono i passeggeri con cui ieri ho condiviso il viaggio della speranza Roma Termini-Milano Centrale, ma di valorosi, su altri convogli, ce n’erano decine di migliaia. Lavoratori che hanno perso la giornata; persone che dovevano spostarsi per ragioni mediche; universitari che però – almeno questo – avranno modo di recuperare le lezioni e la cui materia grigia non naviga a vela in acque internazionali. Il treno parte quasi in orario ma dà subito segnali poco incoraggianti. È l’una, e la capotreno, capelli rossi e occhi sconsolati, passa in rassegna i pochi coraggiosi della carrozza: «Ci scusiamo, ma tra poco se le cose non cambiano dobbiamo annunciare che il treno si ferma»; «Ma come, non riparte più?»; «Riparte, ma non sappiamo quando perché ci sono i binari occupati». «Dove? »; «Firenze». «Ma perle sette riesco ad arrivare in ufficio?», le fa sarcastico o forse no uno sulla quarantina, cravatta blu in tinta con le bretelle. Fa l’avvocato. Arriviamo prima di cena, dunque? «Spero di sì», risponde la capotreno, «vorrei vedere mia figlia prima che dorma». La gente compulsa nervosamente i telefoni e vede che le zucche vuote ornate di kefiah, invasi i binari brandiscono perfino dei cartelli stradali. I delinquenti sono avvolti da fumogeni rossi. Ci siamo: qualche minuto e arriva l’annuncio. La rassegnazione era nell’aria e l’altoparlante cancella ogni speranza. D’accordo, il treno alla fine arriva prima delle sette, chissà però l’avvocato e la mamma quanti rosari hanno intonato in auto – pure i mezzi pubblici funzionavano a singhiozzo – imbottigliati da chi ha cominciato il fine settimana in anticipo o un impiego lo rifugge. Il macchinista ha un’unica possibilità per non vedere Carosello sulle rotaie, e noi con lui: che la polizia riesca ad allontanare i delinquenti e sfruttare il momento per deviare il percorso, cosa che fa. Grande! Il treno riprende la marcia, sennonché l’incedere è bolso e non più sulla linea dell’alta velocità. È un’altra velocità. Per un’ora si ferma a cadenza regolare ogni cinque minuti. Firenze è alle spalle però la circolazione è congestionata. Passeggio tra una carrozza e l’altra e un signore sulla settantina, panciuto e baffi alla Lenin, mi racconta che sta accompagnando la moglie all’ospedale, o perlomeno era il piano, per una visita specialistica. Hanno programmato il viaggio più di un mese fa quando “la Flotilla” poteva essere una danza latinoamericana, e invece no. Poco dopo telefona al figlio e gli chiede una mano, se le cose dovessero andare avanti così, per riprogrammare tutto. In Emilia la littorina comincia a correre a perdifiato. Lo perde in prossimità dell’entrata in stazione. A Reggio Emilia va di nuovo che è una meraviglia e si vede la luce, anche se ormai è buio.«Li mortacci sua!». Al signore coi baffi alla Lenin s’è scaricato l’iPhone.
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