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Marco Patricelli: la sinistra non sa la storia, sfregio ai morti di El Alamein
25-10-2024, 08:13
Un conto è la storia, un altro la politica, e un altro ancora l'uso politico della storia. E, peggio ancora, l'uso politico dell'ignoranza della storia. Sull'anniversario della battaglia di El Alamein (scatenata il 23 ottobre 1942 e conclusa il 5 novembre con la vittoria alleata sull'Asse), a riprova che sotto il cielo di Roma ci sono poche idee ma confuse, contro il tweet commemorativo del Ministero della Difesa rilanciato dal presidente del Senato Ignazio La Russa e sottolineato da Paola Chiesa (FdI) ha sparato ad alzo zero Ivan Scalfarotto (Iv) ruminando il solito repertorio su nazifascismo, agiografia, nostalgismo a paccottiglia varia. Forse è opportuno ribadire due o tre punti fermi per non farsi tirare la giacca dalla propaganda partitica e compiacersi delle parole «dal sen fuggite» a scapito del «saggio tacer». L'esito dello scontro a El Alamein segnò l'inversione di rotta del secondo conflitto mondiale, che l'Italia affrontava dalla parte del Terzo Reich; gli italiani combattevano infatti al fianco dei tedeschi inviati ad aiutarli contro l'esercito dell'impero britannico. Che la causa fosse quella sbagliata è persino superfluo ribadirlo, ma sostenere che i soldati italiani fossero fascisti e quindi complici del nazismo è una semplificazione falsa e in malafede. Per quanto l'immagine che tutti hanno davanti agli occhi di piazza Venezia gremita il 10 giugno 1940, quando Mussolini proclama lo stato di guerra con Francia e Inghilterra, in realtà il Duce, che quella guerra la volle, non la poteva dichiarare perché il dittatore non aveva questo potere: era il capo del Governo, e un atto del genere a norma dell'art. 5 dello Statuto albertino era prerogativa del capo dello Stato, ovvero il Re Vittorio Emanuele III. Il Savoia avrebbe potuto impedirlo ma non lo fece, e questo automaticamente fa ricadere sull'intera nazione italiana le conseguenze di quella decisione. GUERRA DEGLI ITALIANI I soldati nelle colonie della Libia e dell'Africa Orientale giuravano fedeltà al Re, non al Duce, contrariamente ai soldati tedeschi che invece giuravano al Führer. Ne consegue, e non solo dal punto di vista del diritto, che quella del 1940-1943 fu in tutto e per tutto “la guerra degli italiani” e non “la guerra fascista”. Quindi a El Alamein combatterono i soldati italiani per l'Italia: quella Italia diventata regime fascista ma in diarchia con i Savoia che rappresentavano istituzionalmente lo Stato. L'Esercito era Regio, non solo nominalmente, e Vittorio Emanuele III ne rimaneva il capo supremo anche se ne aveva demandato il compito all'ex sergente della prima guerra mondiale che di tattica e strategia ne sapeva assai poco, al pari di generali per lo più carrieristi senza troppe qualità. Uno che se ne accorse subito fu Erwin Rommel, chiamato a rimettere le cose a posto, sorpreso negativamente dalla caratura media di comandanti e ufficiali ma ammirato dalla truppa che, pur assai mal equipaggiata, se ben guidata non aveva nulla da invidiare ai lodati militari dell'Afrika Korps. A El Alamein, come ricordato da un'iscrizione del dopoguerra, «mancò la fortuna, non il valore». Gli italiani diedero prove di ardimento (altra parola “pericolosa” al giorno d'oggi, forse al pari di Patria per la quale si batterono) fermando i carri Mathilda e Lee-Grant con mine applicate sul fondo del carro armato che passava su una buca dove era appostato un coraggioso militare, o lanciavano una bottiglia di benzina sullo scafo: non erano folli esaltati, ma non avevano artiglieria e non c'era alternativa. La divisione corazzata Ariete, con carri inadeguati e con le solite penurie di carburante, ne uscì annientata. I bersaglieri si coprirono di gloria come la divisione Folgore di paracadutisti. Vinsero gli inglesi, e fu una fortuna per tutti. Ma quello che accadde sulle sabbie africane non va negato, non va svilito e non va irriso offendendo la memoria dei caduti. CELEBRAZIONI UNITARIE Paolo Caccia Dominioni dedicò la vita per realizzare il sacrario di El Alamein, custodire i resti e la memoria storica di quanto era accaduto. Chissà se i leoni da tastiera e dell'antifascismo militante ne hanno mai sentito parlare. E chissà se qualcuno dei politici abbonati all'indignazione partigiana (nel senso letterale) ricorda che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano rese omaggio ai nostri soldati caduti nel 66° anniversario della battaglia e il ministro Lorenzo Guerini nel 2019 ha ricevuto nelle sue mani il tricolore italiano proveniente proprio dal Sacrario di El Alamein. Non propriamente nostalgici del Ventennio, stando al loro vissuto. A El Alamein, nella seconda e ultima battaglia, furono impegnati circa trecentomila uomini di undici nazioni con poco più di 1.500 carri armati. Quella pagina di storia venne scritta col sangue di quasi trentamila soldati tra morti, feriti e dispersi. Decine di migliaia vennero avviati verso i campi di prigionia. Otto divisioni italiane e quattro tedesche erano state fatte a pezzi. Col nome di questa località iniziano le memorie del Maresciallo Bernard Law Montgomery, che ne ricaverà pure il titolo di visconte. Sul fronte africano non si verificarono crimini di guerra. Per la storia, che va conosciuta e compresa, e per la verità, che va coltivata e protetta.
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