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Ocone: ci voleva Draghi per far scoprire alla sinistra il fallimento dell'Europa
11-09-2024, 10:40
Ma non ci avevate detto che l'Unione Europea era un esempio straordinario di alta politica e sapienza istituzionale? Non ci avevate ripreso ogni volta che facevamo qualche critica, costruttiva per carità, alle istituzioni di Bruxelles, subito etichettandoci, per di più senza diritto di replica, come “sporchi e cattivi” populisti o sovranisti? Chi se non l'Unione, ci ricordavate, ci ha garantito settant'anni di pace, dimenticandovi però di un “piccolo” particolare: il ruolo svolto dall'ombrello atomico americano? E quante volte, a noi che li contestavamo in nome della libertà e dell'innovazione, ci avete detto che i regolamenti sulla protezione dei dati e quelli sull'Intelligenza Artificiale messi a punto a Bruxelles erano i più avanzati al mondo e che presto sarebbero diventati un modello per tutti? E non dicevate pure che, grazie alle politiche europee, in men che non si dica e a tappe forzate, saremmo piombati nel meraviglioso “mondo nuovo” digitale e sostenibile, green e felice? Ora scopriamo, dagli stessi giornali e dagli stessi politici che ci avevano azzittito, che le magnifiche e progressive sorti dell'Europa non erano poi tali. Che, anzi, il vecchio continente è in agonia (Repubblica), che senza cambi radicali l'Unione Europea morirà (Domani), che siamo alla “sfida finale” e che presto potremmo affondare economicamente perdendo la nostra prosperità (Avvenire). “Contrordine, compagni!”, si sarebbe detto un tempo. Cosa è successo? A “dare la sveglia” e a far riorientare le bussole dei nostri progressisti à la carte, ci ha pensato Mario Draghi col suo Rapporto sulla competitività in Europa, commissionatogli dalla Commissione di Ursula von der Leyen e presentato l'altro ieri alla stampa. L'impressione è che l'ex banchiere centrale, parlando come un “sovranista” qualunque, abbia svolto, suo malgrado, il ruolo di colui che toglie le castagne dal fuoco agli eurolirici d'antan. In sostanza, la sinistra si aggrappa a lui per nascondere il proprio fallimento. La realtà, come si sa, è impietosa e prima o poi presenta il conto: ammettere che gli altri avevano ragione presuppone quel coraggio che i nostri progressisti, incapaci per natura di fare autocritica, non hanno mai avuto. Se però Draghi ha fotografato in modo impietoso la realtà, non si può dire che sia stato altrettanto convincente nella pars construens del suo discorso. Se la sua diagnosi è corretta, altrettanto non può dirsi per la sua prognosi, per la cura che suggerisce all'Europa finalmente riconosciuta come malata. Su di essa, in un'ottica liberale, possono e debbono aversi seri dubbi. Qui giocano, probabilmente, vari fattori, in primo luogo la sua formazione culturale, che è di matrice rigidamente keynesiana, e poi l'appartenenza a quello stesso establishment che gli ha commissionato il report e che ora dovrebbe fare harakiri. Il problema ad un certo punto diventa politico e un tecnico, per quanto autorevole come Draghi, non può affrontarlo. Per almeno due motivi: da una parte, perché deve partire da certi presupposti stabiliti dal committente, e, dall'altra, perché i suoi modelli sono costretti a muoversi nell'artefatta aria della teoria. I presupposti principali, indiscussi e indiscutibili, sono che un'Unione centralizzata sia un bene a prescindere; che i cosiddetti esperti ne sappiano più dei comuni cittadini perché dotati di una conoscenza superiore (si parla di “epistocrazia”); che la realtà, pur finalmente riconquistata, vada trattata un po' come la cera e modellata a piacimento dai novelli filosofi-re. La cera, in questo caso, sono però esseri umani, cioè i cittadini europei con i loro bisogni e le loro esigenze, con i loro progetti di vita. E qui viene fuori il vero centro di ogni questione, la leva su cui far leva per ogni cambiamento: il popolo europeo. In una parola, l'Unione immaginata da Draghi continuerà ad avere quel “deficit democratico” che è all'origine di tutti i suoi mali se pensa di poter fare a meno del dèmos. Anzi lo esalterà ancor più e proprio se si passerà, come da lui suggerito, al principio della “maggioranza qualificata” nell'approvazione delle leggi. Paradossalmente, i vecchi Stati nazionali, con tutti i loro difetti, hanno ancora una certa legittimità democratica: il loro potere di veto è in ultima analisi un argine alla completa deriva antidemocratica. Significativo è che, proprio nelle pagine in cui si delinea la nuova governance proposta per l'Europa, memori forse del trauma della Brexit (anch'esso opportunamente mascherato in sede europea), non si contempli minimamente la possibilità per un Paese di recedere dall'adesione all'Unione, cioè di uscire da quel club a cui si è aderito. Viene in mente, a tal proposito, quanto afferma un noto teorico del liberalismo contemporaneo, già professore alla London School of Economics, Chandran Kukathas. In Arcipelago liberale, la sua opera più conosciuta, egli sottolinea come il vero principio liberale piuttosto che la libertà di associazione, dovrebbe essere quello di dissociazione dal gruppo a cui si è deciso un giorno di far parte (o in cui ci si è ritrovati). A ben vedere, è questo il discrimine fra le autocrazie e i sistemi che vogliono continuare ad essere liberali e democratici.
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