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Ocone: per lanciare Harris, ecco la Kamalaconomics
29-07-2024, 13:13
Il Financial Times ci ha informato ieri che Kamala Harris non sta perdendo tempo, tanto che nella sua prima settimana di campagna elettorale avrebbe già impostato il suo piano economico. Quello che un tempo era il quotidiano della City, pur ammettendo che la Harris non ha una specifica preparazione economica, proveniendo dal campo giuridico, ci fa sapere che il fior fiore dei consulenti e degli economisti di area è già all'opera per lei. La «Kamalanomics», come la chiama, avrà l'obiettivo di sfidare Donald Trump sul suo stesso terreno: la difesa della media e piccola borghesia in declino. Domani, ad esempio, davanti al pubblico entusiasta di un istituto superiore del Wisconsin, la candidata “putativa” (non è stata infatti ancora nominata ufficialmente), ha affermato che incrementare la “classe media” sarà l'obiettivo prioritario della sua presidenza. Ovviamente le modalità per raggiungere l'obiettivo di una “care economy” sono caratterizzate da un forte interventismo statale, che non prevede certo quella diminuzione delle tasse che all'americano medio pure sta a cuore. E che presumibilmente sarebbe il vero volano per una ripresa economica generale. Ma tant'è! Il Financial Times, come ormai buona parte del sistema mediatico globale, sorvola su queste “piccolezze” e non fa nulla per nascondere la simpatia per la nuova candidata, alla quale si strizza palesemente l'occhio anche quando, come nel caso dell'articolo in questione, si assume una modalità discorsiva che pretenderebbe di essere “oggettiva” e “imparziale”. A seguire le cronache di questi giorni sulla Harris, quasi si stenta a credere che si tratti della stessa persona che solo fino a dieci giorni fa veniva considerata incolore, anodina, “né carne e né pesce”, nel migliore dei casi;incapace e incompetente, il più delle volte. Della Harris si esalta ormai tutto, la vita pubblica come è quella privata: la si dipinge come non solo una politica affermata, ma anche una madre adottiva fuori dal comune e persino una grande cuoca ed esperta di vini. Se non ci trovassimo al cospetto del cuore della comunicazione globale, cioè del filtro attraverso cui passa buona parte dell'informazione in possesso del cittadino medio (che però ha cominciato a diffidarne), ci verrebbe da pensare alle parole che Fantozzi e i suoi amici rivolgono all'onorevole Cavaliere Conte Catellani, neo direttore del loro ufficio, in un film della nota serie: «È un bel direttore», «è un santo», «un apostolo». Ma a volte la realtà supera l'immaginazione, anche se forse non siamo nemmeno più abituati ad accorgercene. Soprattutto la realtà ci impone di saperla leggere e interpretare con categorie nuove ed adeguate. Il primo elemento su cui riflettere è la potenza e la velocità con cui ogni singolo elemento dell'ingranaggio si riconverte e si adatta ad una situazione nuova. In verità, il potere ha avuto sempre una alta capacità trasformistica, ma quello che impressiona è la rapidità con cui oggi si può far passare chiunque dalle stalle alle stelle, o viceversa. Il secondo elemento da considerare è la pervasività con cui questo riadattamento avviene, quasi come se il “villaggio globale” fosse davvero poco più che una comunità chiusa di paese ove chi osa contraddire i detentori del pensiero legittimo, gli unici accreditati ad orientarlo e riorientarlo a proprio piacimento, viene automaticamente squalificato come “barbaro”, “fascista”, “pericoloso”. Che è un po' la parte che sono chiamati a giocare, in questa partita a carte predeterminate, Trump e i conservatori in senso lato. Tuttavia il terzo e più rilevante fattore da tener presente concerne il venir meno dei presupposti classici per il funzionamento di una democrazia: non solo una libera dialettica fra parti disposte a riconoscersi, bensì anche quella libertà e pluralità del sistema informativo che ha fatto grande l'America stessa (e che faceva parlare già Voltaire della liberté de plume come di una conquista essenziale del suo tempo). In questa situazione, gli stessi strumenti classici come il tanto invocato “spirito critico” sembrano insufficienti o desueti: la partita non si gioca a valle, ma a monte; non concerne le posizioni in campo, ma la possibilità di stabilire e imporre le regole del gioco, sempre diverse a seconda delle convenienze. Un sociologo non certosospettabile di simpatie di sinistra, Pierre Bourdieu, aveva già intuito questa deriva delle nostre democrazie, parlando dei monopolizzatori del capitale simbolico (e dell'immaginario comune) e del loro monopolio interpretativo. In questi giorni ne stiamo avendo conferma. Il “caso Harris” è davvero da manuale!
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