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Estero
È morto Sebastiao Salgado, l'uomo che cambiò il fotogiornalismo
Ieri 23-05-25, 18:40
AGI - Sebastião Salgado, il fotografo che ha raccontato il mondo in bianco e nero, è morto a 81 anni. Il suo non era uno sguardo come gli altri perché sapeva oscillare e spostarsi continuamente tra il meglio e il peggio del nostro pianeta. Esaltare la bellezza profonda e inesplorata della foresta amazzonica e denunciare, senza fronzoli o ricami, la miseria dell'essere umano. Girare per una delle sue ultime mostre, Amazonia, significava perdersi ascoltando il battito di un universo a volte sconosciuto, tra rumori, suoni, voci. E scatti, naturalmente. Dettagli, certo. Occhi, soprattutto. Il fotografo franco-brasiliano si è spento a Parigi dopo cinque decenni di duro lavoro, di viaggi, di impegno sociale. Nessuno come lui ha raccontato un pianeta in sofferenza ma vivo, pulsante, speranzoso. Fiero autodidatta, Salgado lascia un'eredità unica, frutto di centinaia di viaggi, rullini, testimonianze. I suoi lavoro sono comparsi dappertutto, da Life al Time, dentro a volumi, raccolte, poster, social network. Fame, guerre, tragedie umanitarie e richieste, disperate di aiuto. Le foto di Salgado, attivista di sinistra fin dai tempi dell'università, hanno spesso dato corpo a popolazioni che avevano bisogno di una voce, di un tramite, di un mezzo attraverso cui farsi sentire. Dal Rwanda al Guatemala, passando per l'Indonesia, il Bangladesh. E il Brasile, naturalmente. Oggi possiamo osservare la Terra attraverso i suoi click, le sue pose, in un modo totalmente originale. E poi c'è l'immenso lavoro sulla foresta amazzonica, uno dei suoi impegni più grandi, che gli procurava sofferenza ma che non ha mai smesso di raccontare. Il suo lavoro è uno dei più grandi manifesti viventi per la difesa dell'ambiente, anche grazie al lavoro della sua compagna di una vita, Lélia Deluiz Wanick Salgado. Nel corso della sua carriera ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali, tra cui il Premio Prince of Asturias per le Arti (1998) e il Premio della Fondazione Hasselblad (1989). E poi c'è il documentario girato da Wim Wenders, insieme al figlio, Juliano Ribeiro Salgado, che racconta in viaggi in Papua Nuova Guinea e nel Circolo Polare Artico. Si chiama "Il sale della terra" ed è stato anche nominato agli Oscar. Un racconto che può essere vissuto anche sfogliando le pagine del libro Genesis. Guardate l'uno, e leggete l'altro. Le umili origini e il racconto degli ultimi Nato nel 1944 nel villaggio di Conceição do Capim, nello Stato di Minas Gerais, Salgado non ha mai dimenticato da dove fosse venuto. E la sua rivoluzione all'interno del fotogiornalismo è passata anche attraverso quelle esperienze, quella solitaria esistenza, quelle distese sconfinate. Un passato umile che gli ha permesso di raccontare con empatia i lavoratori rurali, i rifugiati, le popolazioni indigene e quelle che lottano, ogni giorno, per difendere territori, tradizioni. Intere storie a rischio oblio. Il suo stile era capace di fondere insieme lirismo e denuncia, una virtù che appartiene solo ai grandi, e di mettere da parte ogni forma di facile pietismo. Amante della luce naturale, non disdegnava neanche la composizione delle scene, le pose, la forza di un viso, di una figura. Nienete è superficie, tutto è da scavare. Cresciuto con le sue sette sorelle nella fattoria del padre, allevatore di bovini, Salgado ha imparato la pazienza: una lezione fondamentale per un fotografo, che deve sapere attendere il momento perfetto per scattare. Nel 1969 si trasferisce in Francia che diventa la sua seconda casa. Lo segue Lélia che sarà fondamentale nell'indirizzarlo nelle scelte su chi e cosa raccontare. Fu lei, ovviamente, a regalargli la macchina fotografica, per fargli capire che era ora di abbandonare il mondo dell'economia e coltivare il suo sogno. Per tutto questo rinunciò anche a un posto comodo di lavoro, all'interno della Banca Mondiale. Decise di partire dall'Africa e dalle sue contraddizioni realizzando i suoi primi reportage sulla siccità e sulla carestia in Niger ed Etiopia. Da lì, da quelle terre sfortunate, cominciò un viaggio lungo mezzo secolo. I grandi scatti Nel 1979 divenne uno dei fotografi della Magnum, tra le più attive e rinomate agenzie. Due anni dopo ottenne il suo primo grande scoop, scattando 76 foto in 60 secondi durante il tentato assassinio del presidente statunitense Ronald Reagan a Washington. La consacrazione arrivò nel 1986 con le immagini iconiche della miniera d'oro di Serra Pelada, in Brasile. Per documentare la sofferenza e le condizioni difficili dei cercatori d'oro, decise di vivere con loro per 35 lunghi giorni, ricoperto di fango e lontano dalla luce del sole. Tra le sue opere più note bisogna per forza citare anche Exodes (2000), reportage sulle migrazioni forzate in 40 Paesi del mondo. "Sebastião è stato molto più di uno dei più grandi fotografi del nostro tempo", si legge, infine, in una nota del profilo ufficiale dell'Instituto Terra, una ONG per l'educazione agli ecosistemi fondata dallo stesso Salgado, sempre insieme alla moglie Lélia Wanick. "Insieme alla sua compagna di vita, Lélia Deluiz Wanick Salgado, ha seminato speranza dove c'era devastazione e ha fatto fiorire l'idea che il ripristino ambientale sia anche un profondo gesto d'amore per l'umanità. Il suo obiettivo ha rivelato il mondo e le sue contraddizioni; la sua vita, il potere dell'azione trasformativa". La foto scelta dalla Ong? In bianco e nero, ovviamente. L'uomo e il fotografo, fusi insieme, ci guardano. Sorridono più con gli occhi che con le labbra e sembra che ci salutino, senza rimorsi e rimpianti, in una delle pose più riuscite e che meglio racconta chi era, e quanto ci mancherà Sebastiao Salgado.
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