s

Cronaca
La pizza fritta, piatto della Resistenza napoletana
Oggi 25-04-25, 08:50
AGI - C'era chi combatteva con i fucili. E chi con le mani infarinate. C'era chi stava sulle montagne. E chi accendeva fuochi nei cortili. Anche così si è fatta la Resistenza: cucinando il poco che c'era, condividendo, sopravvivendo. Dal Nord al Sud, la cucina ha avuto un ruolo nella Liberazione. In Emilia, i fratelli Cervi offrirono trecento chili di pastasciutta al popolo di Campegine il 25 luglio 1943 per festeggiare la caduta di Mussolini, mentre a Napoli, la Resistenza ha avuto un sapore diverso. Le Quattro Giornate di Napoli e il ruolo della cucina Dal 27 al 30 settembre 1943, durante le Quattro Giornate, la città insorse contro i nazisti e si liberò da sola. E anche lì, la cucina fu un atto di resistenza civile. “A differenza di quanto accaduto durante il Covid, le pizzerie rimasero aperte – spiega all'AGI Luciano Pignataro, giornalista enogastronomico e profondo conoscitore della cultura partenopea –. La pizza fu una delle principali forme di sostentamento per i napoletani. E quando cominciò a mancare la legna, le donne si ingegnarono: accendevano fuochi per strada e friggevano l'impasto. È lì che nasce davvero la pizza fritta”. La pizza fritta, simbolo della Resistenza napoletana Una pizza fatta con il poco che c'era, figlia della necessità, cucinata per strada, con olio bollente e ingegno, diventa il piatto della Resistenza napoletana. Un cibo improvvisato, popolare, che ha tenuto insieme la città nel momento più difficile. Se al Nord la memoria si lega alla pastasciutta dei Cervi e alle minestre delle staffette, al Sud si tramanda tra padelle fumanti, impasti fritti e mani infarinate. Era una cucina del “senza”: senza zucchero, senza carne ma piena di solidarietà. Anche a Napoli, la libertà è passata per la cucina. Perché resistere, qui, ha significato anche continuare a impastare. E a friggere. Insieme.
CONTINUA A LEGGERE
9
0
0