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Cronaca
Licenziata perché incinta, condannata l'azienda
Ieri 15-05-25, 20:24
AGI - Licenziata perché incinta e lavoro perso. Una donna, dopo quasi quattro anni dalla cacciata da parte dell'azienda, si è vista accogliere il ricorso dalla Corte d'Appello di Trento. Ora l'azienda 'Dana', che nel settembre del 2021 aveva espulso la dipendente perché in gravidanza, è stata condannata per discriminazione di genere. La causa è stata portata avanti dall'avvocata Sonia Guglieminetti col sostegno della Fiom, del Nidil e dell'Ufficio Vertenze della Cgil. Il contesto L'impiegata, addetta alla contabilità, lavorava in Dana con un contratto interinale con missione a termine fino al 2049. Nel settembre 2021 veniva posta in gravidanza a rischio e, per questa ragione, Dana la estrometteva dall'organico, interrompendone la missione. In conseguenza a questa decisione, la lavoratrice tornava in capo all'agenzia di somministrazione, la Manpower, che, non potendola ricollocare altrove proprio a causa della gravidanza, le erogava solo l'indennità di mancata missione. L'importo mensile era pari a meno di un terzo dello stipendio che la lavoratrice avrebbe percepito se il diritto alla maternità le fosse stato garantito. Le rimostranze della Fiom A fronte delle rimostranze della Fiom, Dana dapprima sosteneva di non avere alcun dovere nei confronti dei lavoratori in somministrazione, in quanto formalmente dipendenti di altre aziende, "con le quali sussiste solo contratto commerciale". Dopodiché, davanti al giudice del lavoro, Dana sosteneva che la decisione di interrompere la missione era "conseguenza di una ristrutturazione aziendale" e che la concomitanza con la gravidanza era pura coincidenza, così come pura coincidenza era stata l'identica decisione assunta nei confronti di un'altra lavoratrice interinale andata in gravidanza. La sentenza della Corte d'Appello La Corte d'Appello di Trento ha accertato che il comportamento di Dana è derivato da una discriminazione verso le donne: tra circa un migliaio di lavoratori, stabili e precari, le uniche due persone estromesse da Dana in quel periodo erano state proprio quelle due donne, evidentemente 'colpevoli' di aspettare un figlio. La condizione di una lavoratrice in stato di gravidanza - ha sancito la Corte d'Appello - va tutelata sempre, anche se lavora con un contratto precario. In caso contrario, si è di fronte ad una discriminazione. Per questa ragione, la Corte ha condannato Dana a riconoscere alla lavoratrice il 100% della retribuzione sino al compimento dell'anno di età del figlio, nonché un risarcimento per il danno dovuto alla discriminazione di genere. Le dichiarazioni dei sindacati "La parità di genere e la tutela della maternità sono principi che vanno praticati nei fatti, coi comportamenti concreti - hanno detto Michele Guarda e Giulia Indorato, segretari generali di Fiom e Nidil del Trentino -, viceversa le belle parole delle policy aziendali contro le discriminazioni di genere sarebbero solo 'gender washing'. Grave che un episodio simile sia accaduto in una grande multinazionale". "L'auspicio è che questa sentenza costituisca un primo tassello per mettere al bando lo staff leasing e più in generale l'uso indiscriminato del lavoro precario, - ha concluso Guarda - che lede la dignità del lavoro e delle persone azzerando un secolo di conquiste sindacali".
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