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Sport
L'esplorazione alpina di Primo Mori al Tour de France 1970
Ieri 24-07-25, 06:04
Tour de France del 1970, il 9 luglio, la tredicesima tappa, da Grenoble a Gap, quasi 200 chilometri, con cinque Gran premi della montagna, Laffrey, Lholme, Noyer, Festre e Sentinelle: “Scattai per conquistare il primo Gpm, mi ritrovai da solo, tenni duro, tornanti e chilometri, salite e discese, rocce e boschi, forse le mappe erano approssimative, forse le altimetrie erano confuse, o forse dopo una novantina di chilometri di fuga solitaria persi il conto dei colli, ma quando a una decina di chilometri dal traguardo scoprii che c’era ancora una salita, quasi scoppiai a piangere. Serrai la mascella e i denti, mi aggrappai al manubrio e alla speranza, pensai a casa e al Paradiso, e finalmente arrivai con tanto di giro di pista. Primo”. Primo di fatto nonché di nome. Primo Mori. “Famiglia contadina, di Molino d’Egola, frazione di San Miniato, provincia di Pisa, a me è rimasta la passione per l’orto e il giardino. Due fratelli e una sorella, io il quarto. I miei genitori mi battezzarono Bruno. Poi, all’anagrafe, i testimoni o l’impiegato, invece di Bruno fu trascritto Primo, ma per tutti, in famiglia e al paese, ero Bruno, e così lo sono ancora adesso. Di essere Primo lo venni a sapere solo a scuola, il primo giorno della prima elementare”. Scuola poca, il minimo, fino alla quinta elementare. “Poi casa e campi. Un giorno gli amici sportivi di San Miniato Basso organizzarono una corsa di biciclette in paese, gareggiai e me ne innamorai all’istante”. Bruno correva e Primo arrivava. “Passista scalatore, il mio destino era che per vincere dovessi arrivare da solo, una sola volta vinsi in volata, ma eravamo in tre”. Professionista dal 1969 al 1975, un anno alla Max Meyer, tre alla Salvarani, due alla Sammontana, l’ultimo alla Scic, cinque vittorie, oltre a quella tappa al Tour anche una al Catalogna a Barcellona sul Montjuic, una al Giro d’Italia in una cronostaffetta (e un giorno in maglia rosa) e due circuiti. “Il bello del ciclismo era la fuga, dove la voglia di vincere è pari alla paura di essere raggiunto. Il bello del ciclismo era, per me, anche la salita, le più dure il Ventoux in Francia e il Blockhaus in Italia e il Grossglockner in Austria, in una tappa al Giro ci arrivai secondo, peccato”. Ma il Tour era il Tour. “Il Tour dei campioni, a cominciare da Eddy Merckx, il Cannibale, ma un cannibale bravo, e da Felice Gimondi, il mio capitano, ma un capitano tenace, correre per lui era facile, sempre davanti, ma anche difficile, sempre fatica. Il Tour della gente e del caldo, il Tour delle Alpi e dei Pirenei, il Tour delle grandi opportunità”. Primo Mori ne ebbe un’altra sempre in quel Tour del 1970: “Il 14 luglio, festa nazionale, la diciottesima tappa, da Saint-Gaudens a La Mongie, 137 km con tanto di Mentè, Peyresourde, Aspin e La Mongie, sulle rampe del Tourmalet. Attaccai per conquistare altri Gran premi della montagna, avevo la maglia di leader della classifica, che allora era verde e non ancora a pois, peccato, fuga solitaria, finché in discesa, sul bagnato, a cinque km dal traguardo caddi, mi rialzai, insanguinato io e storta la bici, per arrivare arrivai, ma in ritardo, ferito nel corpo e nello spirito. E addio alla maglia dello scalatore”. Primo Mori avrebbe corso altri due Tour de France, nel 1971 e nel 1972: “Sempre da gregario, ma nel 1971, ritirato Gianni Motta, potei fare la mia corsa e nella classifica finale fui dodicesimo assoluto e primo degli italiani”. Il Primo degli italiani. “Primo no, c’erano i campioni, da Bitossi a Zilioli, e poi da Ocana a Thevenet. Era un ciclismo diverso da quello di oggi, c’era più entusiasmo e affetto, si faceva gruppo e famiglia, si scherzava e ci si divertiva, si era tutti amici e si stava tutti insieme. Era un ciclismo diverso anche perché le biciclette erano diversissime, le nostre pesavano 10-11-12 kg, quelle di adesso meno di sette, i nostri rapporti erano cinque e andavano da 13 a 22 o al massimo 23, quelli di adesso sono 12 e vanno fino a 32, e davanti avevamo corone da 44 e 53, adesso ci sono anche da 34, è per questo che noi salivamo barcollando o a zigzag. Per non parlare delle maglie di lana, che quando pioveva ci arrivavano sulle ginocchia”. La passione di Primo è stata trasmessa ai due figli: “Massimiliano, 16 anni da professionista, e Manuele, 17. Massimiliano gregario di Mario Cipollini, Manuele gregario di Damiano Cunego e Diego Ulissi. Massimiliano oggi procuratore, nonché proprietario di gelaterie, Manuele direttore sportivo alla Uae, la squadra di Tadej Pogacar. Se sono rimasti nel ciclismo, vuole dire che si sono comportati bene. Ho un nipotino, lui in bicicletta al massimo fa qualche girata con gli amici, ma nessuna corsa. La dinastia dei Mori, peccato, è bella che finita”.
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