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Sport
Ritorno a canestro. Barcellona riabbraccia Ricky Rubio
07-02-2024, 17:20
C’è una foto, tornata di moda in queste ore, scattata nel 2010. Seduto c’è Juan Carlos Navarro, “La Bomba”, guardia dal talento smisurato nei giorni in cui era supportato dall’ispirazione giusta, mortifero in penetrazione e da tre punti; qualche metro più in là, con un sorriso deformato dalla troppa felicità, Roger Grimau, la classe operaia che va in paradiso, quasi tutta la carriera dedicata al blaugrana. In mezzo, con il volto che è ancora quello di un bambino cresciuto da poco, Ricky Rubio, con una barba appena accennata e la mano sinistra appoggiata al trofeo dell’Eurolega appena vinta sul parquet di Bercy, demolendo l’Olympiacos di Teodosic e Kleiza, di Papaloukas e Childress, Bourousis e “Baby Shaq” Schortsanitis. Troppo forte il Barcellona, preso per mano dai canestri di Navarro, dalla fisicità di Pete Mickeal, dalle mani dolci di Erazem Lorbek, dall’esperienza di Fran Vazquez e del nostro Gianluca Basile. Sono passati 14 anni: Navarro è il general manager del Barcellona, Grimau il coach. E Ricky Rubio, da qualche ora, è tornato a essere un giocatore blaugrana. Il volto non è più quello di un bambino, ma è quello di un uomo che, negli ultimi anni, dopo i problemi fisici ha dovuto affrontare quelli mentali. Lo ha fatto con candida onestà, ammettendo le sue difficoltà, i “giorni in cui tutto era buio, in cui avevo qualcosa che mi offuscava la mente e che non riuscivo a superare”. Sono ostacoli difficili da comprendere se non si è stati sotto i riflettori dall’età di 14 anni: il nome di Rubio era entrato prestissimo nei discorsi del grande basket europeo, bambino prodigio con un futuro già scritto. Mai nessuno aveva esordito così giovane nella Liga ACB, con la maglia del Joventut Badalona. Mai nessuno aveva mostrato quella sfacciataggine, quella visione, quelle linee di passaggio che per molti erano impensabili anche a 20, 25, 30 anni. Ricky le vedeva quand’era ancora un adolescente costretto a farsi uomo in fretta. Argento olimpico con la Spagna a 17 anni, faccia a faccia con Kobe, Wade e LeBron. “Non avevo paura di nulla”, ha detto qualche settimana fa a The Athletic, ripercorrendo le gioie e i dolori di una carriera da predestinato. Durante la scorsa estate aveva reso manifesto quello che in molti già avevano preannunciato: la decisione di allontanarsi dalla pallacanestro a soli 33 anni. Avrebbe potuto continuare a ottenere contratti in Nba, nascondendosi nel mucchio, per quanto possibile. Non era mai stato uno tra tanti: quinta chiamata al draft Nba del 2009, con i Timberwolves consapevoli che ci sarebbe stato da aspettare prima di averlo da quella parte dell’Atlantico, complice un buyout elevatissimo fissato da Badalona. Proprio nel 2009 era arrivato a Barcellona a miracol mostrare, sapendo che sarebbe stato un amore a tempo, con l’Nba escape fissata per il 2011. Ha vissuto grandi annate e grandi notti, negli Stati Uniti, ma quella promessa di grandezza non è mai stata assecondata fino in fondo. Adesso Ricky torna a Barcellona, tredici anni dopo. Ha vissuto annate difficili, segnate dagli infortuni, prima di arrendersi alle fatiche della mente. L’annuncio dello stop era arrivato a ridosso dei Mondiali 2023, lui che quattro anni prima era stato Mvp della rassegna vinta dalla Spagna: “Ho bisogno di fermarmi per prendermi cura della mia salute mentale. Chiedo che venga rispettata la mia privacy per far sì che io possa affrontare questi momenti ed essere in grado di fornirvi maggiori informazioni quando sarà il momento giusto”. Ha lasciato sul tavolo due anni di contratto a 12 milioni e mezzo con Cleveland, ha rimesso le cose a posto. Poi è tornato a sentire il richiamo di una palla a spicchi che rimbalza sul parquet: “Mi manca troppo, è qualcosa che fa parte di me. Nessuno mi spinse a giocare, è solo lo sport del quale mi sono innamorato per la sua complessità”. Nella foto di presentazione ha la barba, il pallone in equilibrio su un dito, un bel sorriso. Rivederlo con Navarro e Grimau sarà un bel tuffo nel passato.
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