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Bangla Cash, quel denaro inviato dagli stranieri senza controlli e tasse
Oggi 20-05-25, 11:56
Una montagna di denaro. Guadagnato, in parte in nero, in parte in modo del tutto regolare in Italia. Da immigrati residenti nel nostro Paese che, invece di rimettere in circolo quei denari, li spediscono in Bangladesh, piuttosto che in Marocco, in India o in Perù. Una sorta di lavatrice del contante, quella che viene effettuato quotidianamente dai money transfer, caduti ora sotto la lente di ingrandimento del governo. I temi che si intrecciano in questa solo apparentemente intricata vicenda sono molti. E toccano, da vicino, nel concreto, le tasche di tutti gli Italiani. Soprattutto quelli meno ricchi, che ogni mese devono fare i conti con difficoltà, caro vita e rinunce quotidiane. Partiamo dai numeri: nel 2023 sono stati inviati, sono in Bangladesh, 26 milioni dal territorio dell'ex provincia di Gorizia, secondo i dati di Banca d'Italia. Nel 2024 da Roma sono partiti 306 milioni di euro sempre per il Bangladesh, 170 da Milano per le Filippine, oltre 52 per la Georgia da Bari, 44 da Brescia in direzione Pakistan. Prima domanda: dove sono finiti quei soldi? Per aiutare la famiglia di origine del lavoratore straniero in difficoltà o per finanziare terrorismo, produzione e vendita di armi o di droga? Impossibile saperlo, anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, si tratta di operazioni finalizzate con denaro contante. E di piccolo taglio. Nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di trasferimenti di cento, duecento euro alla volta. Ed è sostanzialmente impossibile seguire il flusso di quel denaro, una volta giunto in nazioni asiatiche o africane. Vi è poi un problema fiscale: una parte consistente di queste ricchezze proverrebbe da lavoro a nero, non regolare. Pagato, come da prassi, in modalità «cash total black». Soldi che, in un amen, fanno il giro del mondo e salutano l'Italia. Milioni di euro, guadagnati nel nostro territorio che non ritornano però in circolo. Ovvero, con quei soldi non vengono poi comprati televisori o lavastoviglie. E, di conseguenza, su quegli oggetti, non vengono pagate tasse. Stranieri che, al contrario, usano i nostri ospedali, si rivolgono ai nostri medici di famiglia e transitano sulle nostre strade. Ma il vero buco nero sul quale il centrodestra vuole intervenire è che le cosiddette rimesse consentono agli immigrati, residenti in Italia, di avere dei moduli Isee (l'indicatore che serve per valutare e confrontare la situazione economica dei nuclei familiari che intendono richiedere una prestazione sociale agevolata) bassissimi. E questo, a sua volta, consente ai cittadini stranieri di poter aver accesso a tutta una serie di servizi pubblici, finanziati quindi con denaro derivante dalle tasse dei cittadini, dai quali vengono sistematicamente esclusi gli italiani. Gli esempi sono molteplici, ma si riassumono in un termine tecnico preciso: servizi a domanda individuale. Partiamo dal servizio più ambito e quello economicamente più rilevante: l'accesso alle case popolari. La graduatoria si basa su alcuni parametri ma l'Isee rappresenta, senza ombra di dubbio, la valutazione principale. Dover pagare un affitto (o un mutuo) può arrivare a rappresentare, per alcune famiglie italiane, circa la metà del proprio guadagno mensile. Nelle città più importanti le rate mensili possono toccare anche i 1.000 euro. A fronte di stipendi che, raramente, superano i 1.500 euro. Discorso analogo per i servizi di mensa e pulmino per gli asili, le scuole materne ed elementari. Non serve svolgere chissà quale inchiesta per essere consapevoli come la gratuità per i suddetti servizi spetti nel 90% dei casi a cittadini stranieri. Quando la sinistra sostiene che gli immigrati non godano degli stessi diritti degli Italiani ha ragione: l'accesso ai servizi di chi è nato in Bangladesh o in Pakistan è infatti, di gran lunga, più agevole, più tutelato e, in una parola, migliore rispetto a romani, fiorentini o milanesi. Una stortura inaccettabile, che va sanata al più presto.
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