s

È la solitudine la malattia del secolo. Ma non si cura coi social
19-04-2025, 09:49
Dietro il grande cancello bianco della villa sulle colline del veronese Maria Teresa e Marco avevano cristallizzato le loro esistenze. Ex dentista lui, casalinga lei, trascorrevano quell'età di bilanci (75, 76 anni) che non induce ilarità, ma nemmeno foschi pensieri, lontano da sguardi indiscreti e banali intrusioni. Accumulavano silenzi e ricchezze persuasi di bastarsi l'un l'altro e che il mondo là fuori non avesse nulla di particolarmente eccitante. La natura di quelle colline era un placido rifugio e le giornate si componevano di solidi rituali scanditi dal rumore del vento e dal limpido riverbero dei colli euganei. Il destino non gli aveva dato figli. Ma solo parenti lontani che se ne stavano defilati e distanti e mai avrebbero bussato alla porta per reclamare compagnia. Il telefono squillava di rado ed erano per lo più scocciature. Neanche in paese si trovava anima viva che chiedesse di loro. Non c'era un giro di signore cotonate con cui dividere chiacchiere da salotto o un ramino bagnato di vino al bar della chiesa. Il pissipissi della domenica, semplicemente tralasciava di occuparsi di quel binomio solitario. E chi li ha mai visti!, sussurravano le beghine della piazza di Monselice tutte prese a contare i forestieri che arrivavano nelle feste comandate e scivolavano via dietro il rumore dei loro trolley. Per tutti erano solo la strana coppia di strada dei Monti. Un mesetto fa, però, accade l'imprevedibile. Un gruppo di esploratori urbani, oserei dire insoliti avventurieri a caccia di fattacci altrui, si imbatte nel giardino di quel monte Ricco tanto amato dai veronesi. Frugano nella vegetazione e tra le foglie odorose e percorrono il vialetto di cemento. Ma i fiori sono secchi e il terriccio sparso lascia presagire nulla di buono. La casa, la porta, le grandi finestre, tutto ha un che di sinistro e inquietante. Finché gli occhi abituati al degrado e alla desolazione di certe periferie metropolitane non si imbattono nei corpi mummificati di Marco e Maria. Stecchiti. Rigidi come manichini di un film del terrore. Lui, lei, le loro ombre silenziose e le loro ambizioni portate via da un destino canaglia e lasciate ad avvizzire nei corpi come le foglie dei loro alberi. Ultima traccia di vita, una bolletta dell'ottobre 2024. La notizia suscita grande sconcerto, di colpo il paese si scopre attonito e affranto. Ci si guarda in faccia sgomenti e speranzosi che qualcuno, parente o amico, abbia da dire qualche cosa anche la più scema. Ma passa il tempo, un minuto, un'ora, due giorni, due settimane, e nulla, silenzio totale. L'ex dentista e la sua consorte condannati alla solitudine in vita e post mortem. Il comune scaligero, mosso da pietas, si offre di pagare le esequie. Qualcuno suggerisce sommessamente di assoldare le prefiche per piangere lacrime di circostanza. Spiace essere veniali ma si pone anche un problema di eredità. Come tutte le esistenze benestanti che si rispettino, anche questa ha uno strascico di codicilli e nodi da sciogliere. Anzitutto, va stabilito chi dei due sia morto per primo, il marito di infarto, la moglie non si sa di cosa. Poi occorre scandagliare l'asse ereditario di entrambi, fino al sesto grado. Si riparla di lontani parenti. Addirittura di un fratello di Marco sperduto in qualche parte del paese che però non avrebbe più avuto rapporti con il consanguineo. E via discorrendo stando ben attenti a nascondersi tutti la mortifera e crudele verità: i due poveretti sono morti in solitudine. E in solitudine sono condannati a restare. Mi ricorda tanto la triste vicenda del due volte premio Oscar Gene Hackman e della sua più giovane consorte trovati morti in una placida località americana dopo anni di silenzio e rimbrotti. Li hanno rinvenuti cadaveri in una villona elegante piena di finestre, corridoi e topi che se ne stavano grassi e pasciuti nelle stanze lussuose spargendo all'intorno un virus mortifero .Come siano deceduti i poveretti non l'ho ancora capito, ma quel che è certo è che nessuno si è scomodato per offrire loro una consolazione nella dipartita e neppure nei giorni che l'avevano preceduta. Il gruzzolo cospicuo – 80 milioni di dollari - da spartire tra i figli distratti mentre il cadavere del grande attore se ne stava compito nel suo rigor mortis sul tavolo dell'obitorio e nessuno lo reclamava. Non ho più avuto il coraggio di vedere un film interpretato da Hackman, troppo crudele il contrasto tra la vita stellata e quella morte indecorosa. Dove voglio arrivare con questi racconti di mestizia? Non certo alla considerazione che non valga la pena dannarsi in vita se poi la fine è questa qui. Ma forse una riflessione va fatta. È da tempo immemore che ci interroghiamo sulla solitudine. Prima sottovalutata, poi considerata salvifica con la pandemia, infine ridotta a condizione di totale alienazione dall'altro resa possibile, anzi favorita, da un'iperbole di tecnologia. Tre adulti su cinque negli Stati Uniti si sentono soli. Nel Regno Unito sono arrivati a istituire un Ministero della solitudine anni fa e a imporre il social prescribing negli ambulatori medici al fine di prescrivere ai pazienti sfilze di farmaci antinfluenzali insieme a camminate, conversazioni e caffè al bar in buona compagnia. E da noi almeno il 55% della popolazione ne soffre. Sono fioriti gli studi e si è documentato che la solitudine sviluppa malattie neurologiche e impoverisce l'anima portandoci a una condizione di immobilismo che è l'anticamera della morte dello spirito. Pesa sulle casse dello stato al punto che l'Oms l'ha dichiarata problema di salute pubblica globale. E non consola sapere che non si tratta di un fatto anagrafico ma è connaturata a questa società di monadi perse nei cellulari e a una tecnologia che ha risucchiato ogni afflato sociale facendoci davvero credere che il vivere sui social significhi essere parte di una comunità. Ho sempre provato pena per quelle anziane giapponesi che commettono piccoli reati o ruberie per poter essere arrestate e vivere in carcere, preferendo la routine della cella e la compagnia di un galeotto alla solitudine e alla povertà del mondo là fuori. Ma un po' le comprendo e non credo che i desideri di tante persone che ci vivono accanto ogni giorno siano molto difformi. Peccherei di falsità se dicessi che non mi sono mai sentito solo. Ma tendo a circondarmi di persone amorevoli per ovviare al problema. E poi ho i miei gatti. Loro certo non mi abbandonano. Insomma signori, la solitudine è una faccenda seria e una livella. Ci accomuna tutti, chi prima chi poi. Serve correre ai ripari e trovare un rimedio credibile stando però attenti a chi promette affetto e attenzioni esagerate. C'è sempre una fregatura dietro l'angolo. E allora meglio crepare mummificati che fottuti dal primo imbecille.
CONTINUA A LEGGERE
5
0
0