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Elkann, Macron e Nagel dal mito alla disfatta. La caduta degli antichi totem
Oggi 14-09-25, 15:54
Rien ne va plus. Macron, Elkann, Nagel: non semplici stelle cadenti, ma buchi neri. La Francia sull'orlo della guerra civile, la Fiat che ha trasformato l'iconico «stile Agnelli» in una battuta di Osho, e Mediobanca con manager in fuga. Tre scosse diverse, una radice comune: Parigi. Mito e rifugio di quel patriziato industrial-finanziario che nel Novecento aveva imposto la propria egemonia. Basta aprire l'archivio storico di Piazzetta Cuccia: l'asse con Lazard e André Meyer generò Mediobanca e la sua ragnatela globale di relazioni. Gli Agnelli, già orbitanti tra Partito d'Azione e il Pri di Ugo La Malfa, si misero definitivamente in scia a Cuccia quando i conti della Fiat iniziarono a vacillare per poi finire sotto tutela francese con Romiti quando divenne il loro proconsole. Da allora il fil rouge francese non si è più spezzato, sopravvivendo persino al crollo della Lazard «europea», diventata banca americana e altra cosa. Oggi John Elkann, che pensa più in francese che in italiano dopo gli anni al liceo Victor Duruy di Parigi, si muove tra finanza e comunicazione con la leggerezza di chi ama la vela più dei bilanci. Grande tifoso di calcio e motori, peccato che con lui Juve e Ferrari stiano conoscendo solo sconfitte. L'ultima trovata della sua cosiddetta messa in prova, al posto dei gettonatissimi servizi sociali ha fatto sorridere il mondo, trasformando una pratica giudiziaria in siparietto mediatico, attenuando tuttavia l'imbarazzo che ha coinvolto anche i Cavalieri del Lavoro. Suo zio, Carlo Caracciolo, commenterebbe: «La vera eredità non è il patrimonio, ma la credibilità pubblica» con Gianni Agnelli che con un mezzo sorriso chioserebbe: «I soldi chiudono i processi, non i conti con la storia». A Parigi, il Napoleoncino in salsa tech, Emmanuel Macron, dopo aver messo all'angolo destra e sinistra con «En Marche», è riuscito in un'impresa difficilmente replicabile: mettersi contemporaneamente contro Trump, Israele e i Brics (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, Arabia Saudita, Egitto, Etiopia, Iran, Emirati Arabi Uniti). Risultato: una Francia spaccata. Marine Le Pen apparecchia la sua incoronazione, la gauche barricadera non si arrende, le banlieues restano polveriere permanenti. Lo spread con l'Italia si è azzerato: i cugini transalpini non sanno gestire il debito, mentre noi italiani, vecchi professionisti del fallimento controllato, lo maneggiamo come un croupier le sue fiches. Per Mediobanca, un tempo Vaticano laico, oggi filiale bancaria sotto l'ombrello di Mps, la parabola è persino più impietosa. L'Opas ha sancito la fine di Nagel e Pagliaro, generali stanchi che vivevano di rendita. Ora il rebus è la buonuscita di Nagel: riuscirà a portarsi via 100 milioni di euro e un patto di non concorrenza, con manleve globali per evitare azioni di responsabilità? E soprattutto, chi prenderà il suo posto? Mauro Miccillo di anca Intesa a e Marco Morelli di Axa, i più adeguati, non si riconoscono nella guida del diligente Luigi Lovaglio; Pagliaro, ultimo dei Maranghi-boys, rischia di essere scalzato da una figura di maggior peso, magari oltre i limiti d'età previsti dallo statuto, che potrebbe essere emendato per l'occasione. Nel frattempo, riposizionandosi dopo uno slalom degno del miglior Alberto Tomba, il dg Francesco Saverio Vinci, più abile sui tavoli verdi del bridge che in quelli della finanza, spera di resistere fino all'arrivo, previsto a dicembre, di uno tsunami. Tuttavia, il vero scossone su Mps non è arrivato in assemblea, ma a Roma, lontano dai riflettori. Esattamente a Palazzo Chigi, l'8 luglio scorso, Jamie Dimon -Papademetriou all'anagrafe, pugile mancato e ora boss di JP Morgan- ha incontrato Giorgia Meloni. Niente convenevoli, solo sguardi e amore a prima vista. Poi, via al Bulgari, con il suo fido Vittorio Grilli, ex ministro del Tesoro riciclato a factotum. Sulla terrazza, tra un brindisi e una battuta, Dimon, incalzato dalle domande dei presenti, ha lasciato intendere: «Per Mediobanca, game over». Traduzione per i grandi fondi: si spengono le luci, milanesi tutti a casa. Franchino Caltagirone e la buon'anima di del Vecchio sentitamente ringraziano. La sacrestia del potere, che un tempo decideva fortune e rovine con un solo cenno -da Ferruzzi a Montedison, dagli Orlando ai Varasi, dai Lucchini ai Ligresti, fino a Burgo- non è più arbitro del gioco, ma pedina di altri. Per la prima volta non è più Mediobanca a scegliere gli azionisti, sono gli azionisti a scegliere Mediobanca. Perché non vale più la battuta cara a Cuccia: «Le azioni non si contano, si pesano». Ma non basta: ora il vento soffia su Trieste più della bora: il «Nagelino di Generali», Philippe Donnet, iniziazione presso l'Institut des Actuaires Français (IFA) e convinto fino a poco tempo fa anche lui di essere il gallo cedrone del pollaio, si era messo a corteggiare i francesi di Natixis senza avvertire nessuno. Una leggerezza che ha fatto sobbalzare consiglieri, presidente e persino i custodi dei Btp perché Generali, con i suoi 40 miliardi di immobili e 35 miliardi di titoli di Stato, pesa più di Leonardo e Fincantieri messe insieme. La lezione brutale di Siena a Mediobanca vale anche per Trieste, ed è quella dei gesuiti: «punirne uno per educarne cento». L'onda d'urto non riguarda solo la finanza. In Francia il semipresidenzialismo mostra tutta la sua fragilità: un presidente può essere eletto senza un partito solido, salvo poi ritrovarsi senza maggioranza in Parlamento. In Italia il parlamentarismo ha lo stesso limite: senza partiti forti, il sistema implode. Negli Stati Uniti invece il percorso resta lineare: prima le primarie, poi la Casa Bianca. Alla fine della fiera, il minimo comune denominatore restano i partiti. Senza di essi, nessun meccanismo istituzionale regge davvero. Intanto a Roma si discute di legge elettorale: proporzionale, nome del premier sulla scheda e premio di maggioranza a chi supera il 45%. Un piccolo Frankenstein istituzionale a rischio di incostituzionalità. Un escamotage per aggirare il percorso legittimo che porterebbe al premierato e che richiederebbe una riforma vera e propria? Se la Consulta bocciasse sia l'indicazione del premier che il premio di maggioranza resterebbe ancora il caro vecchio proporzionale. Si tornerebbe esattamente al punto di partenza del 1948, con buona pace del Mattarellum e delle arabesche di ingegneria elettorale che hanno contraddistinto la Seconda Repubblica. Vicende diverse - Elkann, Nagel, Mediobanca, Generali, la legge elettorale hanno un filo comune: la caduta degli antichi totem. Mentre a Parigi Le Pen si prepara a diventare regina di Francia e a Washington Trump gioca coi dazi per scaricare sul mondo l'enorme debito Usa, in Italia cade l'ultimo mito. Piazzetta Cuccia non è più santuario né tempio: è solo un indirizzo sul registro delle imprese. Sempre che Siena non ne faccia una sede secondaria. Altro che stelle cadenti: qui crollano intere costellazioni. Con un dettaglio beffardo, dall'aldilà, Cuccia probabilmente ride. Lui, che non alzava mai la voce, sussurra: «Vi ho lasciato un tempio, l'avete ridotto a una contrada».
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