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Il consiglio di Veronesi a Venezi: "Se sei di destra ti escludono. Resista"
Oggi 29-09-25, 12:11
«In Italia dichiararsi di destra equivale a mettersi un bersaglio sulla schiena. Sono stato cacciato in tronco dal Festival che ho diretto per trent'anni solo per aver detto che apprezzavo Giorgia Meloni e per aver contestato una regia radical chic. Oggi la storia si ripete». Alberto Veronesi, direttore d'orchestra di fama internazionale, spiega così la polemica nata intorno al Teatro La Fenice. E la grottesca presa di posizione degli orchestrali, che ieri hanno distribuito volantini al pubblico. Secondo lei Beatrice Venezi è brava? Merita quel posto? «Beatrice Venezi è una musicista capace. Non è lì per caso. Ma il punto non è se sia brava o meno: è che una nomina così delicata non si può imporre in pochi giorni. Orchestra e coro non sono sudditi, sono comunità artistiche: vanno coinvolte, convinte, motivate. Se imponi un direttore, la conseguenza è la rivolta. E così si rischia di bruciare una carriera che andava accompagnata con gradualità. Ovviamente questo è un ragionamento che, qualora Venezi fosse appartenuta ai soliti circoletti della sinistra, sarebbe stato comodamente soprasseduto. Da tutti». Ci sarebbe stata la stessa polemica se il direttore fosse stato amico di politici di sinistra o avesse manifestato apertamente posizioni progressiste? «No, e questo è il punto dolente. In Italia dichiararsi di destra equivale a mettersi un bersaglio sulla schiena. Sono stato cacciato in tronco dal Festival che ho diretto per trent'anni, nonostante il mio curriculum: ho diretto a Salisburgo, a Vienna, alla Deutsche Oper, a Santa Cecilia, nei massimi teatri del mondo. Oggi dirigo due-tre opere al mese in giro per il pianeta e il governo cinese mi ha chiamato a fondare un grande festival annuale. Tutto questo mentre in Italia vengo trattato da esiliato per motivi ideologici. È il paradosso italiano: il Paese che forma i grandi artisti, ma li respinge se non si piegano a un pensiero unico». Cosa consiglierebbe, oggi, a Beatrice Venezi? «Le direi di resistere, ma con intelligenza. Niente fretta, niente etichette, niente ruoli immediati: costruire un rapporto vero con l'orchestra e il coro, aspettare che maturi la fiducia reciproca. Non c'era nessuna urgenza di scrivere nero su bianco una nomina che parte fra tredici mesi: la musica vive di tempi lunghi». La sinistra continua a considerare il mondo della cultura come Cosa Loro. Come si spezza questa catena? «Con il coraggio degli artisti e con la responsabilità della politica. Non basta lamentarsi: servono scelte autorevoli, seguite con rigore. La perdita di Sangiuliano al Ministero della Cultura si è fatta sentire: con lui le nomine erano presidiate, garantite, frutto di valutazioni serie. Un ente lirico non può essere trattato come un trofeo di fazione: deve rappresentare i migliori, altrimenti implode». Lei ha subito una gogna simile quando era a capo della Fondazioni Puccini. Ci vuol raccontare cosa è successo? «Sono stato licenziato senza mezze misure dopo trent'anni di lavoro. Non per motivi artistici. La mia colpa è stata politica, non musicale. Ma non mi sono fermato: all'estero ho trovato rispetto, occasioni e libertà. È la prova che non ero io il problema, ma un sistema malato che in Italia giudica il pensiero, non l'arte». È un problema che esiste solo nella musica sinfonica e lirica o in tutto il mondo della cultura? «È un problema trasversale, che riguarda tutta la cultura. Ho visto colleghi bravissimi scegliere il silenzio, l'autocensura, la finzione di una neutralità che non sentono, solo per non compromettersi. Io ho scelto l'opposto: libertà e verità. Ho pagato un prezzo alto in Italia, ma all'estero quella libertà mi ha aperto le porte. Il che è drammatico: per essere riconosciuto per ciò che sei, devi andartene».
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