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Il sogno di Conte "Lupin" della politica: fregarsi la Schlein. Retroscena stellare
Oggi 26-10-25, 13:06
Caro Direttore, il Conte del camouflage. In politica c'è chi crea e chi distrugge. Giuseppe Conte fotocopia. E lo fa con l'eleganza calligrafica del professore–dal curriculum un po' taroccato – che copia il tema degli altri, come sta tentando con l'ultimo progetto di centro, ambizioso e inclusivo, promosso da Alessandro Onorato con il sostegno di centinaia di sindaci, tra i quali Gualtieri, Sala, Salis, Manfredi e amministratori locali. L'Arsenio Lupin delle idee altrui: trafuga con scaltrezza, rielabora con astuzia e restituisce con la convinzione di aver inventato tutto lui. Un'arte sottile che Conte ha elevato a sistema: non tocca denaro, ma schemi, slogan e atteggiamenti. In questo senso è l'illusionista della politica italiana, capace di introdursi in una qualsiasi casa ideologica, appropriarsi di ciò che serve e uscirne tra gli applausi. Arrivato da Volturara Appula, a Villa Nazareth – una corte vaticana travestita da istituto universitario – trovò il suo primo ascensore sociale. Protetto dal cardinale Silvestrini, imparò presto a muoversi travelluti e silenzi. Da quel collegio cattolico uscì non un devoto, ma un chierichetto multitasking. Poi giunse Guido Alpa, il mentore stimato a destra e a sinistra, che lo lanciò nell'Olimpo delle cattedre e degli incarichi ben remunerati: altro che «avvocato del popolo»; Conte è stato semmai l'avvocato d'affari – quelli buoni – con Caltagirone Bellavista in agenda e Marseglia in fattura. Il popolo, al massimo, lo difendeva in streaming. Un cursus honorum poco compatibile con l'autoproclamato «avvocato del popolo» che chiese la fiducia al Parlamento. E quando Alpa aspirò – legittimamente – alla Consulta, l'allievo, divenuto premier, tacque, dimostrando un'altra sua caratteristica: la gratitudine il sentimento della vigilia (copyright Andreotti). Nel 2018 fu estratto dal cilindro da Grillo e Di Maio: era poco più di una «pochette», utile a tenere insieme i due poli del populismo, Lega e M5S. Si disse poi che quella pochette fosse la sua unica identità stabile. Con le sue doti funamboliche, Conte divenne l'uomo di fiducia di entrambi i partiti, fino al tradimento. Nell'agosto 2019, nel pieno del Papeete, con tono da predicatore indignato inchiodò in Senato Matteo Salvini per «irresponsabilità istituzionale». Una delle pagine più grevi del Parlamento italiano: un premier che attacca a colpi di morale il suo ministro dell'Interno, il quale, anziché reagire, rimase stordito. Un capolavoro di trasformismo: l'alleato liquidato in diretta tv con la calma di chi benedice mentre affonda il coltello. E con il Quirinale che consacrava il voltafaccia, riaprendo le porte agli amati cattocomunisti. Da lì, il salto mortale. Passò dal governo più di destra della Repubblica a quello più di sinistra: dal Papeete al Nazareno, dal «cambiamento» alla «responsabilità», dal «vaffa» alla liturgia. Stesso uomo, opposta maggioranza. Prima «il cambiamento», poi «la cura», infine «la rinascita». Ogni parola una maschera, ogni alleato un travestimento. Durante la pandemia Conte si fece statista del dolore. Chiuse l'Italia a reti unificate, tra autocertificazioni notturne, decreti scritti all'alba, «affetti stabili» da decifrare, conferenze stampa trasformate in maratone terapeutiche e innumerevoli gaffe. Il Paese contava i morti mentre il grande fratello Casalino gli contava le visualizzazioni. Nel pieno del Covid, Conte ci lasciava per ore in stand-by per «trucco e parrucco»: Dpcm come ostie in prime time, regìa Casalino Il colpo più audace restò però quello sui Servizi segreti, trattenuti a Palazzo Chigi come una cassaforte personale. Al suo fianco, come direttore del Dis, il gaudente generale Gennaro Vecchione, amico di lunga data della prima moglie. Fu nel Conte II che esplose la missione più discussa: gli incontri segreti a Roma e a Washington con l'allora ministro della Giustizia americano William Barr, nel pieno del Russiagate. Una collaborazione «riservata», condotta all'insaputa del Parlamento, per chiarire presunti intrecci internazionali che gli regalò il «Giuseppi» di Trump della durata di un tweet. Poi arrivò – fortunatamente – Draghi, per mano di Matteo Renzi. Conte tentò la parte dell'oppositore «responsabile», ma finì per perdere Di Maio, il figlioccio divenuto apostata, che ora si fa apprezzare in Europa e negli Emirati. Conte lo bollò come ingrato, dimenticando chela scuola della doppia lealtà l'aveva fondata proprio lui. Quando le idee vacillano, lui trova sempre l'equilibrio. Così, alla convention civica di Alessandro Onorato, è riapparso come una star in tournée: Parco dei Principi, quasi duemila in platea già seduti. In una sinistra ripiegata tra congressi e autocritiche, l'assessore ai Grandi Eventi ha messo in moto un movimento che non chiede permessi ai partiti ma chiama a raccolta chi amministra, chi lavora, chi conosce i problemi della gente: un'Italia concreta e riformista, senza simboli sacri né dogmi vuoti. Un'idea semplice e, per questo, dirompente: riportare la politica tra comuni, città e strade — non nei talk show, non nei retrobottega delle correnti, tantomeno sui social. E Arsenio Conte non si è lasciato sfuggire l'occasione: è balzato sul carro in prima fila, sperando di appannare l'intuizione di Onorato. All'uscita ha snocciolato il consueto kit di parole d'ordinanza—«coesione territoriale», «partecipazione civica» — con la sicumera di un sindaco di provincia, lui che non ha mai amministrato neppure un condominio. E mentre Conte sfilava a Roma, a Genova Grillo preparava la resa dei conti. L'ennesima lite sul simbolo dei Cinque Stelle, infatti, ha riportato il Movimento alle origini: il fondatore contro l'affondatore. Le regionali hanno dato prova della misura del declino: crollo in Puglia, irrilevanza in Piemonte, sparizione in Toscana. Conte galleggia nei sondaggi ma la spinta propulsiva è finita, nonostante la presenza ossessiva nei tg così come per lui, in Vaticano, le porte si sono chiuse. Il nuovo corso di Prévost privilegia la coerenza alla retorica e guarda al professore con la diffidenza riservata ai camaleonti: troppe metamorfosi, troppo camouflage, troppa vanità. Il Sacro Palazzo ricorda e ha poca pazienza, e la cassaforte stavolta vuole combinazioni, non centrini. Eppure, il nostro Lupin non rinuncia al palcoscenico e cova altri due progetti: il primo, dare una mano alla «compagnia» di famiglia per uscire dal pasticcio fiscale del suocero albergatore in difficoltà. Il secondo, ben più ambizioso, impadronirsi di un Pd in cerca d'autore, mandando a casa Elly Schlein con un sorriso da professore e una citazione di Calamandrei. Se ci riuscisse, nessuno potrebbe negargli l'Oscar alla carriera che nemmeno Arsenio Lupin ha mai vinto. Ma il frustrato popolo di sinistra, dopo la Schlein, si berrà pure Conte? Alla Meloni verrebbe da rassicurare Elly con un «stai serena», senza la perfidia di Renzi e l'ingenuità di Enrico Letta.
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