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La testimonianza di Gladys Fishbein: “Mia figlia rapita quel giorno orribile, poi uccisa senza pietà”
Oggi 07-10-25, 08:12
Il 7 ottobre 2023 Gladys Fishbein era nel kibbutz Be'eri. È una sopravvissuta, testimone diretta del massacro e madre alla quale hanno ucciso una figlia di 18 anni. «La mia famiglia arriva in Israele dal Brasile nel 1972 e si trasferisce a Be'eri. Nel gennaio 2008 mia figlia Tchelet (Celeste) è ferita da un Qassam palestinese: aveva tre anni. Ha vissuto con una scheggia nella gamba perché un intervento poteva lasciarla offesa. A dicembre di quell'anno inizia l'operazione “Piombo Fuso”. Anche se da allora abbiamo vissuto sotto costante allarme, Tchelet è cresciuta in un ambiente sano pieno di amici e voglia di vivere». Racconta il tuo 6 e 7 ottobre 2023. «Quel giorno a Be'eri era festa tripla. Simchat Torah, ricorrenza ebraica, era sabato, Shabbat, e alle due feste si aggiungevano i 77 anni dalla fondazione del Kibbutz. Oltre ai membri quella sera c'erano molti invitati. Tchelet e Dor, il suo compagno di 21 anni che lavorava con i bambini bisognosi di cure particolari, erano alla festa. Mi ha salutato ed è andata con gli amici: è stata l'ultima volta che l'ho vista. Io e Liel, mio figlio maggiore, abbiamo dormito da mia madre mentre Tchelet e Dor sono stati nel loro alloggio almeno fino alle 4 del mattino. L'ho saputo dai loro amici che avrebbero dovuto passare la notte con loro ma decisero di tornare a casa, è stata la loro fortuna. Alle 06:29 risuonano le sirene: attacco massiccio di missili. Porto mia madre e la badante nella stanza sicura mentre mio figlio fa scorta di acqua potabile. Detonazioni, raffiche, le grida dei feriti e quelle dei terroristi in arabo, Allah Akbar urlato e ripetuto in maniera ossessiva. L'elettricità va e viene, su WhatsApp notifiche che terroristi sono nelle abitazioni. Spegniamo le luci e rimaniamo al buio per non svelare la nostra presenza. Tchelet mi telefona ma non rispondo, le mando un sms pregandola di mettersi al sicuro. Capisco la gravità del momento dai messaggi, fuori sanno dei massacri in corso. Chiamo Tchelet, mi dice che i terroristi sono entrati nel comprensorio dove abitano. Sui telefoni decine di richieste di aiuto, case incendiate e molti feriti che moriranno senza essere soccorsi. Solo alle quattro dell'8 ottobre dei militari ci accompagnano in un posto relativamente sicuro. Nel tragitto incontriamo un gruppo di terroristi che ingaggiano conflitto a fuoco con la scorta, uno dei soldati è colpito, mio figlio ferito di striscio, io e mia madre da schegge. Un'anziana che era con noi è colpita da un proiettile: è morta dopo pochi giorni. Dall'ambulanza vedo automobili bruciate, crivellate di colpi e corpi a terra: erano ragazzi del Nova Festival». Tchelet e Dor intanto... «Volevo rientrare, me lo hanno impedito: era pericoloso. Mio figlio era convinto che Tchelet fosse in salvo. Dopo due giorni sono stata contattata e mi informano che il telefono di mia figlia è a Gaza, parlando con i genitori di Dor dico: “Se il telefono è a Gaza lei e Dor sono in mezzo ai rapiti”. Ne ero convinta, sui messaggi avevo letto che molte persone venivano portate via vive. Dopo due giorni mi dicono che devono prendere il mio Dna e anche quello del padre, è una procedura per i parenti delle persone disperse. Mi interrogano, vogliono sapere tutto di lei, tatuaggi, orecchini, anelli e collane che avrebbe potuto portare. È la procedura ma mia figlia era bellissima, io immaginavo che l'avessero rapita per farne giocattolo sessuale, anche se così fosse stato mi bastava sapere che fosse ancora viva. Sono stata intervistata da canali televisivi brasiliani e da stazioni radio di molte nazioni. L'ambasciatore del Brasile voleva darmi il passaporto di Tchelet perché la doppia cittadinanza avrebbe potuto esserle di aiuto». Ma poi succede che... «Il 16 ottobre sono nuovamente convocata per dare un nuovo controllo Dna e il giorno dopo bussano alla porta. Apro e vedo la responsabile delle famiglie dei rapiti. Non capisco perché è tornata e perché mi chiede di sedere, mi guarda cercando di capire in che condizioni sono e poi mi dice: “Mi dispiace informarti che abbiamo riconosciuto il corpo di Tchelet”. Non mi hanno fatto vedere i suoi resti, ho solo ricevuto una busta con i suoi anelli e orecchini. L'assurdo è che sei mesi dopo i funerali vengo contattata dalla medicina legale perché fra le macerie sono stati trovati pezzi del suo cranio. Abbiamo dovuto riaprire la tomba per seppellirli e questo ci ha fatto rivivere un dolore che non dimenticheremo mai». Tchelet Fishban aveva 18 anni.
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