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Operazione nostalgia sul Jobs Act. La sinistra si perde nella faida interna
Oggi 06-05-25, 12:13
La sinistra ha un talento innato per complicarsi la vita. E il caso del Jobs Act, la riforma del lavoro targata Matteo Renzi, è l'ennesima prova di un cortocircuito politico che rasenta la commedia. Da una parte, il Pd di allora, nel 2014, approva con entusiasmo una legge che prometteva di modernizzare il mercato del lavoro, semplificare le assunzioni e dare tutele ai precari. Dall'altra, o la stessa sinistra, guidata da Elly Schlein e spalleggiata dal sindacalismo rosso di Maurizio Landini, si lancia in un referendum per smantellarla. Roba da far invidia ai migliori sceneggiatori di “Amici miei”. Andiamo con ordine. Il Jobs Act, piaccia o no, è stato un tentativo di rompere con un mercato del lavoro ingessato, fatto di tutele asimmetriche e rigidità che scoraggiavano le imprese. Non era perfetto, certo, ma i dati parlano: nel 2015 l'occupazione è cresciuta, le assunzioni a tempo indeterminato sono aumentate, e strumenti come la Naspi hanno dato un paracadute a chi perdeva il lavoro. Renzi, con il suo piglio da rottamatore, ci aveva messo la faccia, sfidando le resistenze della sinistra più ortodossa. E il Pd, quasi all'unanimità, aveva votato sì. Oggi, però, il vento è cambiato. Elly Schlein, segretaria di un Pd che sembra aver smarrito la bussola riformista, abbraccia con entusiasmo la crociata di Landini, leader della Cgil, che ha fatto del referendum contro il Jobs Act la sua bandiera. Quattro quesiti su cinque, in programma l'8 e 9 giugno, mirano a smontare quella riforma, a partire dall'abolizione dell'articolo 18, simbolo di un'epoca che non esiste più. La narrazione è chiara: il Jobs Act avrebbe creato precarietà, impoverito i lavoratori, favorito i “padroni”. Peccato che i numeri, ostinati, raccontino un'altra storia: la precarietà c'era prima e c'è ora, mentre l'occupazione è ai massimi storici. Qui sta la contraddizione, grossa come una casa. Il Pd di Schlein, pur di rincorrere il movimentismo di Landini e l'elettorato grillino, rinnega sé stesso. Gli stessi che votarono il Jobs Act – da Orlando a Misiani – ora si arrampicano sugli specchi, parlando di “tagliandi” o “delusioni”. Un trasformismo che sa di opportunismo, con un occhio alle liste elettorali e l'altro alle piazze della Cgil. Landini, dal canto suo, gioca una partita più grande: non solo sindacalista, ma federatore di un “campo largo” che sogna di guidare, con Conte e Schlein al guinzaglio. E Renzi? L'ex premier, oggi leader di Italia Viva, non ci sta. Sfida Landini a un confronto pubblico, difende la sua riforma e accusa la sinistra di “ipocrisia ideologica”. Ha ragione? In parte sì: il Jobs Act non è il demonio, ma nemmeno la panacea. Il problema è che il referendum, più che risolvere i problemi veri – salari bassi, fuga di cervelli, bollette – sembra un'operazione nostalgia, un ritorno al passato che non serve a nessuno. La sinistra, invece di guardare avanti, si perde in una faida interna, tra chi vuole cancellare il Jobs Act e chi, in silenzio, sa che non era poi così male. Intanto, il quorum resta un miraggio, e il rischio è che questa battaglia finisca come le tante della gauche nostrana: tanto rumore per nulla.
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