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Per fare un ponte non basta un click
Oggi 09-11-25, 14:50
Clicca e spera. Lo stop della Corte dei Conti al Ponte sullo Stretto e la riforma della stessa Corte sono due facce della medesima crisi: quella di un Paese che sogna di costruire incrollabili ponti d'acciaio, ma smantella i ponti portanti della fiducia istituzionale. E se, da una parte, il Governo predica “efficienza”, dall'altra, razzola male con una pasticciata riforma della magistratura contabile, perdendo così l'occasione di creare, in tempi di IA, una vera Corte Suprema delle Finanze Pubbliche: un centro di giustizia finanziaria moderno, tecnologico e integrato, capace di unire controllo sulla spesa, responsabilità amministrativa e giustizia tributaria. Insomma, una struttura in grado di garantire metodo, rigore e indipendenza, ripristinando la fiducia tra cittadini e istituzioni. Invece, come al solito, si è scelta una scorciatoia: svuotare ciò che funziona, anziché migliorarlo. Il paradosso è lampante. L'Esecutivo pretende "velocità", ma inciampa nel primo controllo di legittimità. La Corte dei Conti - guidata da Guido Carlino, magistrato siciliano di profilo sobrio, stimato al Quirinale, figlio di quel maresciallo dei Carabinieri che seguì le indagini sull'omicidio di Piersanti Mattarella, ha negato il suo placet al decreto che avrebbe dovuto approvare l'opera-simbolo dell'Italia che si rialza. Non per sabotaggio, ma per mancato rispetto delle regole. Mancava, incredibilmente, il parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, atto tecnico indispensabile prima di aprire un cantiere da 13,5 miliardi di euro. Peggio ancora: ai magistrati contabili non sarebbero stati trasmessi i documenti, ma solo un "tecnologico" link collegato ad un cloud della società del Ponte sullo Stretto, contenente milioni di file da scaricare. Un cortocircuito digitale da burocrazia 4.0: "cliccabile", ma per nulla verificabile. Luigi Einaudi ammoniva: «Conoscere per deliberare». Qui, invece, si è preferito «caricare per deliberare». L'articolo 100 della nostra Costituzione affida alla Corte dei Conti, come il viceministro Rixi dovrebbe ben sapere, il controllo preventivo sugli atti del Governo: una garanzia di legalità e di tutela del bilancio pubblico. Eppure, da Palazzo Chigi è arrivata la polemica «sull'invasione di campo», come se la legalità fosse un atto ostile. Ma non è la Corte, almeno questa volta, ad aver invaso il campo: è la politica ad aver smarrito le linee del perimetro istituzionale, inviando link a documenti che alcuni dirigenti, per superficialità, incompetenza o magari paura, non hanno nemmeno voluto aprire. Surreale anche il resto. Il progetto risale al 1991: a distanza di oltre trent'anni, in un'area tra le più sismiche e ventose d'Europa, mancano perfino le indagini geologiche aggiornate. Una falla che, da sola, basterebbe a bloccare qualsiasi iter. E a difendere il provvedimento davanti alla Corte è giunta dal Mit una squadra degna del grande regista della commedia italiana Mario Monicelli: giuristi senza ingegneri, tecnici senza progetti, guidati dal capo di gabinetto Alfredo Storto, ex allievo del grande mandarino ai tempi di Giulio Tremonti, Vincenzo Fortunato, affiancato da Elena Griglio, con una esperienza al Cerimoniale del Senato, e da Felice Morisco, direttore della sicurezza stradale e testimone nel processo sul crollo del Ponte Morandi. Una piccola armata Brancaleone, inviata a discutere del più grande cantiere d'Europa. Nel frattempo, a Palazzo Chigi, si cercano colpevoli e Matteo Salvini ha riferito in un Consiglio dei Ministri distratto. Non si parla di commissariamento in senso stretto, ma di “supervisione diretta”: d'ora in poi ogni atto sul Ponte dovrà passare al vaglio della Presidenza del Consiglio sotto lo sguardo attento del sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, detto Fazzo, («l'uomo più intelligente che ho mai conosciuto», copyright Giorgia Meloni) e del capo di gabinetto Gaetano Caputi anche lui della nidiata di Tremonti. Intanto cresce, nelle file della maggioranza, il malumore verso la Corte, accusata di non aver mostrato lo stesso rigore con le mascherine del governo Conte e, ancor più, con la vendita miliardaria di Autostrade sotto Draghi. Ma sulle nostre strade, ponti, gallerie e viadotti restano sospesi oltre 30 miliardi di euro di improcrastinabili lavori di manutenzione e messa in sicurezza: una bomba pronta ad esplodere verso chi non li autorizza. Il disegno di legge sulla Corte dei Conti, ora in discussione, appare più come una vendetta che una riforma. Riduce i tempi, introduce il silenzio-assenso, accentra poteri e snatura la funzione giurisdizionale. Non semplifica, disarma. Toglie voce al controllore proprio mentre si vogliono spendere miliardi di euro con la rapidità di un clic. È come voler spegnere la scatola nera per far decollare prima l'aereo. Eppure, il rischio è concreto: senza quel “visto” della Corte dei Conti, ogni atto relativo al Ponte resta giuridicamente scoperto. Procedere ugualmente, significherebbe esporsi a sanzioni europee e a responsabilità personali, anche per chi firma a Palazzo Chigi. In sostanza, il Ponte rischia così di trasformarsi da simbolo di sviluppo a boomerang giudiziario. Ora l'Esecutivo prepara l'ennesima carta dell'IROPI, Imperative Reasons of Overriding Public Interest, la clausola d'interesse pubblico imperativo, per blindare il Ponte come infrastruttura strategica europea e militare, aggirando vincoli ambientali e contabili. Un escamotage che però non cancella le falle di metodo. La Corte dei Conti, con il suo “no” tecnico, ha solo ricordato che la velocità senza controllo non è efficienza, ma superficialità. E che i ponti non si costruiscono sui comunicati, ma sui progetti. Il Ponte di Messina, dentro il Corridoio Berlino–Palermo, dovrebbe unire il Paese; la Corte, con la sua funzione di garanzia, dovrebbe tenerlo insieme, per dare al mercato, ai fondi e agli investitori maggiore tranquillità. Ma oggi rischiamo di perdere entrambi: il primo per impazienza, la seconda per miopia istituzionale. Perché in un'Italia che annuncia prima di studiare, clicca prima di leggere e firma prima di capire, anche i sogni finiscono tra le pieghe di un file dimenticato. E la burocrazia, tra link e nuvole digitali, sembra aver perso non solo i documenti, ma anche la memoria del proprio dovere. Chi pensava che lo stop al Ponte potesse portare acqua al referendum sulla giustizia si deve ricredere: per il Governo rischia di diventare un karakiri. Meloni, pragmatica com'è, l'ha capito e pare stia correndo ai ripari. Ma mentre rimette mano al Ponte, dovrà anche mettere ordine nel pasticcio Autostrade. Altrimenti, più che costruire infrastrutture, continuiamo a costruire solo scuse.
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