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Capezzone: bisogna difendere Musk per difendere la libertà di tutti
10-08-2024, 13:58
Elon Musk La regola numero uno dei liberali, dei libertari, dei conservatori innamorati della libertà, dei politicamente scorretti, di noi cani sciolti, è sempre la stessa: se qualcuno fa impazzire di rabbia la sinistra di tutto il mondo, allora vuol dire che deve esserci in lui qualcosa di davvero buono e interessante. “Lui”, in questo caso, è Elon Musk, oggetto negli ultimi giorni di anatemi e scomuniche francamente fuori misura: la sinistra britannica, anziché interrogarsi sul fallimento del multiculturalismo, ha tentato di fare di Musk una specie di caprone espiatorio del caos che in Gran Bretagna sta affossando il governo laburista. Lagnoso e insidioso come sempre, Walter Veltroni sul Corriere della Sera è arrivato l'altro giorno a sostenere che le parole di Musk sul rischio di guerra civile in Uk fossero nientemeno che un «auspicio», anzi «una lucida e dichiarata intenzione politica» di «destrutturazione della democrazia». E pure Avvenire si è abbandonato a una considerazione di desolante rozzezza, sostenendo che «sotto la sua gestione», Twitter sia «diventato più selvaggio». Si sa, per i cattocomunisti, tutto ciò che è minimamente libero diventa per ciò stesso “selvaggio”. Mentre qualche giorno fa Carlo Calenda, con nonchalance, ha proposto un autentico esproprio proletario: «Occorre togliere ad un pericoloso eversore la proprietà di uno spazio di dibattito pubblico». Testuale. Ed è solo l'antipasto di quanto accadrà nei prossimi giorni: Musk ha infatti annunciato per lunedì una sua conversazione-intervista con Donald Trump, che il capo di X appoggia apertamente in vista delle prossime presidenziali Usa. È fin troppo facile immaginare che entrambi saranno processati e condannati senza appello dalla suprema cupola (mediatica) politicamente corretta. Ora, amici lettori, non verrò certo a raccontarvi che Musk sia un santo, un missionario, una versione laica di Madre Teresa di Calcutta. Né mi permetto di sottovalutarne le bizzarrie e la proverbiale imprevedibilità, le sue stravaganze, il mix tra una diabolica capacità di attrarre attenzione e una ostentata tendenza trash (si pensi al tormentone della scorsa estate di un ipotetico match di arti marziali miste tra lui e Mark Zuckerberg, ipotesi alla quale solo pochi tonti avevano creduto). E però, stranezze a parte, siamo davanti a un genio, non solo a uno degli uomini più ricchi e potenti del pianeta. E in più – ciò che conta maggiormente per noi – a un soggetto che ha consapevolmente scelto di mettersi fuori e contro il coro del conformismo internazionale dem. I campioni del politicamente corretto lo detestano Musk, lo odiano, lo temono, non di rado abbandonandosi a reazioni isteriche, a comportamenti grotteschi, a un doppiopesismo perfino ridicolo. «Pericolo per la democrazia» gridò la senatrice Elizabeth Warren quando Musk avviò la trattativa per Twitter. E il medesimo urlo di dolore venne dall'ex consigliere di Barack Obama Alec Ross, che mise nello stesso calderone considerazioni personali ai limiti dell'offesa («Quel che mi preoccupa è da dove viene Musk, una sorta di fraternita maschilista, popolata da miliardari libertari di San Francisco, il mondo di Thiel e della cosiddetta Paypal mafia»), un'evidente paura rispetto al free speech («temo che prendano la libertà di parola e la trasformino in un'arma») e perfino una crociata preventiva contro le posizioni di chi è per l'abbassamento delle tasse («Lui e Peter Thiel fanno di tutto per evitare di pagare le tasse (...). Ho l'impressione che questo porterà Twitter a essere veicolo di questa visione»). Il quadro è paradossale, e, se non parlassimo di cose serissime, sarebbe perfino comico: a sinistra non si preoccupano se qualcuno era o è ancora censurato o “bannato” sui canali social, ma non si danno pace all'idea che qualcuno che a loro non piace possa non esserlo più. IL SISTEMA Pure in Italia, all'epoca, non sono stati pochi a stracciarsi le vesti, a cantare la stucchevole canzoncina del se arriva lui allora me ne vado io. Tutto da ridere, ma fino a un certo punto: perché c'è un mondo progressista che non accetta nemmeno la remota ipotesi di perdere quel controllo di tutti i principali media (inclusi quelli online) che negli ultimi anni è riuscito a rendere ancora più ferreo (proprio con l'eccezione di Twitter, comprato da Musk e ribattezzato X). Con feroce sarcasmo, un osservatore intelligente come Stefano Magni ha sintetizzato l'atteggiamento della sinistra verso il Trump del 2016 con un lapidario «Come ha osato vincere, se tutti noi eravamo contro di lui?». Ecco, in vista di novembre 2024, a sinistra vorrebbero non correre più “rischi” del genere. E oltre allo psicodramma politico, sono subito iniziate le minacce sul piano regolatorio, pure da Bruxelles (e non solo da sinistra). Il primo a sparare è stato il commissario Ue al mercato interno, il francese Thierry Breton, che ha subito scatenato una guerra contro X. Significativamente, immaginando quello che Musk dovrà sopportare avendo a che fare con le autorità regolatorie, il Times di Londra ha scritto che «si tratterà per lui di una sfida maggiore che andare nello spazio». In realtà Musk ha già sparato un primo colpo efficacissimo su questo punto, tanto semplice quanto rivoluzionario: introducendo una pressoché totale trasparenza sugli algoritmi utilizzati, cioè sui meccanismi di funzionamento del “giocattolo”. Su queste basi, Musk ha riabilitato una serie di account che erano stati bannati, e ha abbandonato la vecchia policy teoricamente volta a contrastare “l'informazione ingannevole sul Covid”: come sanno bene moltissimi utenti, si trattava del meccanismo paracensorio che penalizzava o cancellava ogni valutazione non allineata alla narrazione unica. Ma ciononostante – anzi, a causa di tutto questo – la galleria delle crisi nervose woke contro di lui è quasi senza fine. Si pensi a quando Musk ha cambiato il logo di Twitter inserendo una X o a quando ha trasformato la spunta blu (quella che certifica l'account) in un accessorio a pagamento. Apriti cielo! Al di là e al di qua dell'Atlantico, è scattata una patetica mobilitazione antifascista (e antimuskista) degli spuntati. A costoro – per capirci – andava bene quando, prima di Musk, Twitter bannava Trump: ma gli pare intollerabile il fatto che ora venga loro richiesto qualche dollaro per un upgrading del servizio. La mia impressione è che Musk rappresenti una plateale deviazione dall'algoritmo. Tra gli oligarchi dei media online, è colui che si è più platealmente distaccato dall'orientamento progressista scelto dalla maggior parte degli altri. Morale: l'ex Twitter, strumento decisivo per fissare tendenze e orientare una parte decisiva dell'opinione pubblica, non è più a disposizione del conformismo woke, e i rappresentanti di questo culto sono impazziti di rabbia. Se prima, a ogni contestazione contro la policy dei vari social media, la loro invariabile reazione era quella di rivendicare il carattere privato di quelle società (dunque, dicevano, «possono fare come credono»), adesso improvvisamente vogliono una regolamentazione più stringente. Chiaro, no? Tutto ciò fa del caso Musk una potente eccezione rispetto a una regola che pareva ormai consolidata: quella per cui l'intera enorme bolla costituita da media online, fact checkers, think tank orientati a senso unico, e naturalmente agenzie governative, era riuscita ad acquisire un controllo (apparentemente morbido, ma sostanzialmente ferreo) della gran parte degli orientamenti circolanti su internet e social media. Il giornalista Matt Taibbi, echeggiando e riadattando ai nostri tempi la celebre definizione di Eisenhower (il «complesso militare-industriale»), ha parlato di un nuovo complesso, l'«industria della censura». LE REGOLE Mettiamola così: una società davvero libera ha bisogno di un confronto tra punti di vista drammaticamente confliggenti. Al contrario, l'azione di questo nuovo complesso è volta a costruire un vocabolario condiviso, a dotare tutti di strumenti omogeneizzati e omogeneizzanti di lettura e comprensione delle cose. Il pretesto è sempre quello della lotta alle fake news e del contrasto alla disinformazione: ma l'effetto finale è quello di uniformare parole e pensieri. Si parte da un fastidioso paternalismo e si arriva a esiti di omogeneizzazione orwelliana. Edel resto – circa un anno fa – è stato lo stesso fondatore e ceo di Facebook, Mark Zuckerberg, ad ammettere che non poche delle informazioni censurate dalla sua piattaforma durante il periodo pandemico si sono successivamente rivelate vere, o almeno non false come erano state lungamente bollate. Ecco, Musk avrà mille difetti, ma è palesemente estraneo a queste operazioni e ancor più a questo tipo di mentalità. E qui si arriva a un secondo elemento da tenere presente. Comportandosi così, scegliendo un evidente disallineamento, Musk non ha più reso disponibile Twitter a operazioni oggettivamente manipolatorie, anche con evidenti conseguenze elettorali. È stato lo stesso Musk a certificare la cosa riferendosi al vecchio Twitter: «L'ovvia realtà, come sanno gli utenti di lunga data, è che Twitter ha fallito in termini di fiducia e sicurezza per molto tempo e ha interferito nelle elezioni». Il riferimento implicito di Musk è alla vera e propria cancellazione, negli ultimi giorni della campagna per le presidenziali 2020, della storia – vera, anzi verissima – del laptop di Hunter Biden (contenente informazioni roventi sui rapporti con società estere, Cina inclusa), arrivando a bannare l'account del giornale che l'aveva raccontata, il New York Post. E – si badi bene – non si trattò di un caso eccezionale, ma dell'applicazione di una prassi, quella di un rapporto stretto, per non dire di una collusione, tra agenti governativi (in particolare funzionari Fbi) e vertici delle società big tech, con costanti segnalazioni e richieste di moderazione rivolte a Twitter, Facebook, Google e agli altri giganti internet e social. Certo, in quello specifico caso, considerando la rilevanza esplosiva dello scoop alla vigilia di un voto presidenziale, si superò ogni limite, come si è scoperto a posteriori grazie alla pubblicazione, voluta da Musk, dei documenti interni a Twitter (i famigerati Twitter files). Ma il metodo era costante, oliatissimo, starei per dire istituzionalizzato: un insieme di pressioni governative e paragovernative sui vecchi vertici di Twitter, destinatari di puntuali indicazioni sui contenuti da rimuovere. Ecco, Musk avrà mille difetti, farà mille calcoli, magari ci farà presto disperare per chissà quante ragioni, ma è palesemente estraneo a questo meccanismo. Sarà pure un tipo bizzarro e imprevedibile, ma ha un istinto libertario ben combinato con la capacità di calcolo e la disponibilità alla scommessa di un imprenditore audace. E allora eccoci al cuore della questione: sia nel 2016 che nel 2020, le due ultime elezioni presidenziali Usa sono state decise da meno di 70mila voti in tre stati. E realisticamente le elezioni del 2024 saranno decise da un margine strettissimo. La presenza di Musk cambierà molte cose: non solo non saranno più facili colpi di mano come quelli a protezione della famiglia Biden, ma sarà reso elettoralmente e culturalmente contendibile quello che i dem continuano a considerare un loro terreno esclusivo di caccia. In tutti i sensi, la presenza in campo di Elon Musk è dunque un game-changer: un fattore che rischia di cambiare, auspicabilmente nel senso della libertà e dell'apertura, questa fine di 2024. È per questo che lo detestano e gli sparano addosso.
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