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Daniele Capezzone: così i democratici si sono rinkamaliti
27-10-2024, 06:52
Al di qua e al di là dell'Atlantico, è panico tra gli antitrumpisti ossessivo-compulsivi, tra quelli che qui a Libero chiamiamo da tempo affettuosamente, si capisce - i “rinkamaliti”. L'ultimo trauma psico-politico gliel'ha inflitto nientemeno che Jeff Bezos, il gran capo di Amazon, che è pure editore del Washington Post. Quotidiano da sempre critico verso Trump e di consolidato orientamento progressista: così come Bezos stesso, protagonista di anni di polemiche roventi con Trump. Basterà ricordare che, proprio in polemica con Trump, è stata la proprietà-Bezos a volere sotto la testata del WashPost la cupa dicitura “Democracy dies in darkness”, cioè “la democrazia muore nell'oscurità”, implicito ma evidente atto d'accusa contro il trumpismo. E tuttavia Bezos ha deciso che in questa elezione presidenziale il suo giornale non farà alcun endorsement, cioè non pubblicherà un articolo di appoggio ufficiale a un candidato. È perfino ovvio sottolineare che, nel caso del Post, un eventuale editoriale di benedizione avrebbe necessariamente riguardato Kamala Harris. E invece no: come decine di altre testate in giro per gli States (tra cui il Los Angeles Times), anche un gigante come il Washington Post ha scelto di non schierarsi formalmente. Segno abbastanza evidente di come pure nel campo progressista non si sia più certi della vittoria di Kamala. E anzi si cominci, se non a elaborare il lutto, per lo meno a delineare lo scenario di una vittoria del loro Nemico Arancione. E allora, tanto per cominciare, meglio evitare di spararsi preventivamente sui piedi con un appoggio ufficiale a una candidata (forse) non più vincente. Apriti cielo! A stretto giro di posta sono arrivate le dimissioni-lampo di un collaboratore illustre come Robert Kagan, un terremoto in redazione, e altre polemiche al calor bianco. Ci si è messo pure lo scrittore Stephen King, che ha fatto sapere di aver disdetto il suo abbonamento (ma c'è da dubitare che ritiri i suoi romanzi da Amazon...). CONTRORDINE E la crisi isterica tra i rinkamaliti è rimbalzata immediatamente pure dalle nostre parti. Ne citiamo uno per tutti, il neoballerino televisivo Alan Friedman: «Mi dispiace dirlo (ndr: con italiano come sempre abborracciato, lui ha scritto: “Mi dispiace a dirlo”), ma temo che potrebbe farcela davvero Trump. E il fatto che Jeff Bezos si è inchinato davanti a Trump rende il padrone di Amazon quasi peggio di Elon Musk. Mentre Musk è di estrema destra, Bezos è soltanto un codardo patetico». Alé. In un attimo (sintetizzo liberamente a modo mio) siamo passati dall'«autorevole Washington Post» a «quel gran pezzo dim...di Bezos». Si percepisce un certo nervosismo, indubbiamente. Anche altri, sperando forse di essere notati, hanno comunicato la rinuncia al loro abbonamento: ma difficilmente Bezos perderà il sonno per questo. Poveracci, in fondo c'è da capirli ‘sti rinkamaliti. In pochi mesi, stanno passando da uno choc all'altro, costretti ogni volta ad aggiustare la narrazione per restare al passo della macchina propagandistica dem. Per un tempo infinito, fino a giugno scorso, avevano dovuto sostenere che Joe Biden era “lucidissimo”, salvo poi, dopo il disastroso faccia a faccia in tv con Trump, correre a scaricarlo ingiungendogli di farsi da parte. E allora ennesimo “contrordine compagni” - avevano dovuto capovolgere il giudizio su Kamala. Fino a a quel punto, loro stessi l'avevano descritta come una macchietta: la sua risata sguaiata, la sua comunicazione improponibile, la gestione devastante dei dossier a lei affidati (a partire dall'immigrazione). Ma, un minuto dopo l'incoronazione (zac!), ecco i progressisti di mezzo mondo convergere nella rappresentazione di una nuova Kamala, di una Kamala trasfigurata, di una specie di madonna pellegrina da portare in processione. Una chei spiegavao- trascinaa le masse, ncantava i iovani, facea istantaneamente invecchiare quel catorcio di Trumpone. Ah sì? Effettivamente, dopo tutto questo battage, per qualche settimana c'è stato un “bounce”, un rimbalzo pro Kamala. Ma a poco a poco, come Libero vi ha raccontato minuto per minuto, l'effetto novità si è afflosciato. Nel voto popolare nazionale (che non è decisivo, come sapete, ai fini dell'elezione, dove conta il complesso incastro dei singoli stati) Trump ha ormai affiancato la sua avversaria. Mentre - ecco il punto - il tycoon sarebbe avanti in quasi tutti gli stati in bilico. Badate bene. In un'elezione americana, come spiegava ieri benissimo Mario Sechi, non c'è da stare mai tranquilli fino all'ultimo, e ogni sorpresa è sempre possibile. Dunque, non vi stiamo affatto dicendo che Trump abbia vinto. Di più: nemmeno vi stiamo dicendo che un'eventuale vittoria di Trump (pur fortemente auspicata da Libero) ci porterà granitiche certezze programmatiche: dall'economia alla politica estera, ogni giorno ci regalerà nuove scoperte, e Trump potrà farci godere così come potrà farci disperare. Calma e gesso, dunque. Ma la fotografia di oggi è tale da rendere nervosissimi i nostri amici rinkamaliti. Polymarket (la super-piattaforma predittiva dove si può scommettere sul risultato) vede una probabilità di successo di Trump del 65,8% (contro il 34,2% di Kamala). Non solo: le chances per Trump di vincere tutti gli stati in bilico sarebbero del 29%, e quelle di conquistare più elettori neri del passato addirittura dell'87%. Tutti fattori che indicano una tendenza molto preoccupante per idem, nonostante la scatenata mobilitazione elettorale di Barack Obama (circostanza irrituale e inopportuna per un ex presidente). NATE SILVER DIXIT Oltre all'economia, è l'immigrazione l'evidente tallone d'Achille di Kamala. È questa la tesi dell'ultimo report di Nate Silver, significativamente titolato: «È l'immigrazione che può spostare l'elezione verso Trump». All'interno si legge: «Immigrazione ed economia sono gli enormi punti deboli per Harris», mentre i suoi punti di forza sarebbero il tema dell'aborto, la questione della democrazia in generale, oltre che le caratteristiche personali di Trump. Ma è l'immigrazione la ferita aperta e sanguinante, con Kamala che è ritenuta responsabile del disastro avvenuto in questi anni di amministrazione Biden in particolare rispetto alla frontiera con il Messico. E che tiri una brutta aria per gli estremisti dell'accoglienza lo si capisce perfino da un altro paese diverso dagli Usa ma confinante con esso, il Canada di Justin Trudeau, a sua volta citato nel report di Nate Silver. Il premier-icona dei progressisti di mezzo mondo sta vedendo crollare il suo consenso: gli ultimi sondaggi lo vedono 20 punti sotto i suoi avversari Conservatori (guidati dall'eccellente Pierre Poilievre, leader atlantista, anti-tasse e pro-mercato). E allora che fa Trudeau? Tenta disperatamente, in extremis, di chiudere porte e portoni, ammettendo di aver sbagliato le stime sulla sostenibilità dei flussi migratori, e annunciando che la concessione della residenza permanente a 500mila persone l'anno sarà via via ridimensionata (395mila nel 2025, 380mila l'anno dopo, 365mila l'anno ancora successivo). Una marcia indietro frettolosa e politicamente imbarazzante, e che quasi certamente non basterà a Trudeau per salvare la pelle, elettoralmente parlando. Ma si tratta di una chiara indicazione della tendenza in atto: vale per il Canada e vale per gli Stati Uniti, ormai a dieci giorni da un voto storico. E intanto anche i dati economici (dollaro forte, Bitcoin ai massimi, andamento dei rendimenti dei Treasury) sono considerati da molti analisti altrettanti segnali pro Trump, una specie di endorsement preventivo del mercato rispetto alle sue politiche fiscali e tariffarie. E il nervosismo dem cresce.
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