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Daniele Capezzone: l'economia tira? Bene, osiamo di più
07-01-2024, 08:26
Ieri Libero è stato forse il giornale che ha proposto con maggiore evidenza ai suoi lettori, anche con un eccellente commento di Sandro Iacometti, i dati economici incoraggianti dell'ultimo periodo, in termini di rialzo dei consumi, di andamento assai brillante del turismo durante le feste natalizie, di irrobustimento del potere d'acquisto delle famiglie. Naturalmente questo non vuol dire che ogni problema sia scomparso. Purtroppo, com'è largamente noto, il 2024 presenta nubi non piccole all'orizzonte, in buona misura a causa di fattori che sono estranei alla sfera di intervento del governo italiano: due guerre in corso (forse tre), il persistere della politica dei tassi alti di Bce e Fed, un complessivo rattrappimento dell'economia europea. E tuttavia quei dati positivi ci suggeriscono tre ordini di considerazioni. In primo luogo - non dispiaccia al Pd e ai suoi media di riferimento - il racconto apocalittico e catastrofista della sinistra è non solo sgradevole, ma totalmente fuori fuoco, e ormai toglie ogni residua credibilità a chi se ne fa megafono in questo modo così strumentale e sguaiato. Negli ultimi mesi, da sinistra si era prevista l'impennata dello spread (che invece è sceso), la bocciatura dell'Italia da parte delle agenzie di rating (che non c'è stata), il crollo della Borsa (cresciuta invece del 28% in un anno), e – gran finale – un “massacro sociale” dopo la sforbiciata sul reddito di cittadinanza (e invece l'occupazione è ai massimi). Sarebbe il caso che l'opposizione desse una regolata non solo alla sua comunicazione, a questo punto, ma proprio alla sua analisi sul Paese, che rischia di essere distorta dal pregiudizio politico, alterata dall'ostilità ossessiva nei confronti del governo, e in ultima analisi non credibile. E qui scatta la seconda considerazione: l'Italia ha un potenziale che noi stessi tendiamo a non vedere, a sottovalutare, a negare. Certo, ci sono le tre malattie gravi e ben note: debito alto, spesa alta, tasse alte. Ma ci sono anche elementi su cui costruire una riscossa possibile: il sistema delle piccole e medie imprese (un tessuto di 7-8 milioni di aziende di questo tipo, un bene più unico che raro in Europa); il fatto che il 70% delle famiglie italiane siano proprietarie di una casa, nel quadro di un prezioso sistema di proprietà immobiliare diffusa; un risparmio privato elevatissimo. So di mescolare cose diverse, ma è bene tenere a mente un elemento: se è vero che il nostro debito pubblico è altissimo, è altrettanto vero che il nostro patrimonio complessivo, la nostra ricchezza privata, come Paese, è enorme, circa quattro volte superiore rispetto a quel debito (tra real estate e attività finanziarie, tutto considerato, un anno fa si arrivava a circa diecimila miliardi di euro). Per capirci, un'azienda così prospererebbe e godrebbe certamente di fiducia e credito bancario: naturalmente, quando si tratta del debito pubblico, la faccenda è soggetta a criteri di valutazione diversi, come ben sappiamo. Ma, facendo un check-up complessivo dello stato di salute dell'azienda-Italia, tra pubblico e privato, questo dato non può essere trascurato. Di più: da decenni sentiamo fare un racconto (non solo in lingua francese o tedesca, ma pure in lingua italiana) fastidiosamente “rieducativo” nei nostri confronti: non andrebbero bene le nostre piccole e medie aziende così come sono, non andrebbe bene il ruolo delle famiglie, e via magnificando ed esaltando altri modelli. Ora è evidente che ci farebbe comodo una maggiore robustezza e patrimonializzazione delle nostre aziende, così come è ben visibile il nostro tallone d'Achille legato alla produttività. Ma ciò non significa dover chiudere gli occhi rispetto a ciò che invece funziona. Diciamolo fuori dai denti: quasi nessuno avrebbe scommesso sul fatto che la grande crisi tedesca potesse non contagiarci, o contagiarci limitatamente. E invece è avvenuto, anche e soprattutto grazie alle caratteristiche del nostro modello economico. Questo ci conduce alla terza e ultima osservazione, che riguarda il governo e dovrebbe rappresentare un potente motivo di incoraggiamento a fare di più sul terreno fiscale. Se il taglio del cuneo ha contribuito così positivamente ai dati del terzo trimestre del 2023 (e ricorderete che quell'alleggerimento fiscale è stato potenziato proprio da luglio 2023, quindi la tempistica combacia perfettamente), questo vuol dire che - ovviamente tenendo presenti compatibilità di bilancio e doverosa prudenza - da qui a fine legislatura varrebbe davvero la pena di scommettere su ulteriori riduzioni fiscali. Come si sa, il governo, oltre al cuneo, è partito da un'operazione a favore delle fasce Irpef più basse, e ciò è comprensibile. Ma, nell'arco dei tre anni che ci condurranno alla fine della legislatura, sarebbe fondamentale dare un segnale anche al ceto medio. Non dimentichiamolo mai: Giorgia Meloni eredita un assetto “sovietico” in cui chi ha un reddito superiore a 50mila euro è assoggettato all'incredibile aliquota Irpef del 43%, una cosa lunare che scoraggia consumi, risparmi, investimenti. Sarebbe splendido se - nel triennio andassero di pari passo tre operazioni: un percorso di privatizzazioni che piano piano riduca lo stock di debito pubblico; un'operazione di spending review che avvii un significativo taglio degli sprechi (la nostra spesa pubblica ha da tempo sfondato il muro dei mille miliardi annui); e tre tappe annuali di riduzione della pressione fiscale fino a fine legislatura. Basterebbe – per partire – una riduzione contenuta: l'importante sarebbe dare agli italiani l'idea che quella è la strada prescelta, e che ogni anno ci sarà un passetto in quella direzione. Quest'anno è toccato alla fascia Irpef più bassa, ma non bisogna fermarsi. È per questa via che possiamo tenere su i consumi interni, dare respiro all'economia, ed evitare che la stagnazione europea ci costringa nella trappola degli “zero virgola”.
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