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Daniele Capezzone: ma che triste, solo e pessimista cosmico. Leopardi è molto più di questi cliché
Oggi 15-12-24, 09:04
Si sa: le malefatte del sistema educativo italiano sono tante, nonostante l'impegno mirabile di alcuni docenti particolarmente meritevoli. Ma - sul lato opposto - pesa un antico sfascio organizzativo, e soprattutto il mix devastante di altri professori purtroppo militanti e di manuali ottusamente ideologizzati. La stanchezza, il trascinamento, il gorgo della banalità e del conformismo fanno il resto: annoiando anziché affascinare, respingendo anziché attrarre, spegnendo anziché accendere curiosità e passioni. E così - ad esempio - intere generazioni di studenti sono state ammorbate da un'immagine di Giacomo Leopardi quasi offensiva rispetto alla reale identità di quel gigante. Sì certo, non manca mai l'omaggio rituale al poeta di Recanati, ma ecco lo sfregio - lo si colloca in una dimensione quasi pietistica, una specie di caso umano, in una lettura in chiave più che altro psicologica della sua personalità e della sua traiettoria esistenziale: un tipo solitario, triste, gobbo, dunque pessimista. Roba da pazzi. Ecco, sarebbe l'ora di stracciare e cestinare questa caricatura ridicola, e di restituire ai giovani la vera dimensione non solo di uno dei due-tre poeti più importanti dell'intera storia della nostra letteratura, ma - ecco il punto - di un pensatore e anche in qualche misura di un filosofo di primissimo piano. Si prendano i suoi Pensieri, opera non a caso regolarmente trascurata, e che invece ci restituisce - in frammenti più o meno brevi una lettura complessiva della realtà umana, un viaggio attento e doloroso di Leopardi intorno al tema dei limiti della nostra condizione, quelli che il destino ci ha assegnato. «La mia inclinazione non è mai stata d'odiare gli uomini, ma di amarli», premette sinceramente Leopardi. Ma poi avvisa subito i lettori di una amara realtà: «Il mondo è una lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi». Siamo a una lapidaria definizione del trionfo del male in mezzo a noi. E l'autore è insieme radicale e realista nel definire l'inevitabilità di questo esito: «Non sarebbe piccola infelicità degli educatori, e soprattutto dei parenti, se pensassero quello che è verissimo, che i loro figliuoli, qualunque indole abbiano sortita, e qualunque fatica, diligenza e spesa si ponga in educarli, coll'uso poi del mondo, quasi indubitabilmente, se la morte non li previene, diventeranno malvagi». Badate, non è una maledizione o un anatema: è una raggelante e direi serena constatazione. Il male è dentro di noi, o per lo meno ci cammina a fianco. E chi provi eventualmente a sottrarsi a questa ipoteca? Ahilui o ahilei: «In tutte le lingue civili, antiche e moderne, le medesime voci significano bontà e sciocchezza, uomo da bene e uomo da poco». Che schiaffo alle nostre illusioni. Non c'è in Leopardi la consolazione della fede, e meno che mai la droga di una visione ottimistica della storia. Andiamo a una pagina poetica celeberrima, La Ginestra, con il ben noto sarcasmo sulle “magnifiche sorti e progressive”: una visione positivista e progressista della storia umana è insensata, prima che sbagliata. Ecco, questo sguardo scettico sulla realtà è al cuore di quello che potremmo definire- oso -un conservatorismo umanistico, o un umanesimo conservatore di Leopardi. Dove un elemento è - appunto- la sfiducia verso l'idolo fallace del progresso. Ma dove l'altro elemento - ecco la magia e la dimensione superiore in cui Leopardi si colloca- è comunque un afflato umano fortissimo. Trasferiamoci nello Zibaldone, e rileggiamo il Dialogo di Porfirio e Plotino: «Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme. Non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita dei mali della nostra specie...». Plotino è il filosofo, Porfirio il suo giovane allievo, e Leopardi li immagina in dialogo. Porfirio vuole suicidarsi, e Plotino non gli racconta balle per consolarlo, non inventa banalità tipo “la vita è bella”. Semmai, lo richiama a un legame diverso e superiore, a una comunanza di destino a cui non ci si deve sottrarre: «Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l'un l'altro; e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita. La quale senza alcun fallo sarà breve». E questo filo non si spezza nemmeno con la morte: «E quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell'ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, essi molte volte ci ricorderanno, e ci ameranno ancora». Non si possono leggere queste righe rimanendo con gli occhi asciutti: la tremenda lucidità di Leopardi non si accompagna ad alcuna freddezza di testa o di cuore. Il suo realismo sconsolato lo conduce comunque verso un umanesimo compiuto e integrale.
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