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Fausto Carioti: tradito dalla fretta e dalla presunzione, attorno a Ruffini c'è già il gelo della sinistra
Oggi 15-12-24, 09:08
Il «papa straniero» con lo «sguardo timido», come lo aveva definito un'agiografica Repubblica nemmeno una settimana fa, il navigatissimo conoscitore dei segreti dei palazzi e salvatore annunciato del mondo cattolico di sinistra, è già sparito dalle cronache. Al suo posto è apparso un neofita della politica che in pochi giorni ha commesso tutti gli errori possibili, riuscendo ad alienarsi la fiducia di tanti che avevano lavorato per lui. Cominciando da Romano Prodi, che dei sedicenti “cattolici adulti” (quelli che al mattino vanno in Vaticano e alla sera stringono alleanze con chi vuole il diritto all'aborto garantito in Costituzione) è il capostipite e la chioccia. L'errore stava nel manico: Ernesto Maria Ruffini, ormai ex direttore dell'Agenzia delle Entrate, di timido non ha nulla. Il suo principale difetto, come racconta chi lo conosce, è semmai quello opposto: il peccato di hubris, una eccessiva arroganza, la presunzione di poter far tutto da solo e meglio degli altri. È quello che l'ha portato a rilasciare una lunga intervista sul Corriere della Sera del 13 dicembre, in cui ha criticato esponenti del governo per parole pronunciate anni fa (la frase di Giorgia Meloni sulla lotta all'evasione fiscale che rischia di trasformarsi in «pizzo di Stato» è del maggio 2023). Anni durante i quali ha continuato a lavorare senza lamentarsi di nulla, in apparente totale armonia con l'esecutivo. È lo stesso colloquio in cui ha annunciato di essersi dimesso dall'incarico e fatto capire di essere pronto a entrare in politica. Tutte mosse che non aveva concordato con i suoi referenti e con i leader della sinistra: né le dimissioni anticipate, né l'attacco al governo, né l'intervista al Corriere. Spiega un esponente di sinistra che pure fa (o faceva, ora chissà) il tifo per lui: «Dietro Ruffini ci sono mondi veri e importanti per noi, come una parte della Cisl, le Acli e altro associazionismo cattolico. È gradito al Vaticano e il Quirinale di certo non gli è ostile. Eppure, nemmeno un completo outsider avrebbe commesso gli sbagli che ha fatto lui». L'elenco che gli viene imputato è lungo: «Prima lascia che Beppe Fioroni metta in giro la voce che la sua partecipazione al seminario dei Popolari, l'altro giorno all'università Lumsa, sarebbe stata il segnale della sua entrata in politica. Poi fa il primo della classe e si dimette in fretta e furia e nel modo meno credibile: attaccando il governo dopo che per due anni non aveva avuto nulla da ridire su Meloni e Salvini. E tutto questo per trovarsi esposto in prima fila già adesso, quando mancano quasi tre anni alle elezioni». Raccontano che “il percorso di crescita” che gli era stato suggerito era molto diverso. «Avrebbe dovuto lasciare l'incarico alle Entrate a fine anno, senza sollevare polemiche. Quindi passare il 2025 a girare l'Italia col suo nuovo libro in mano, per tastare il polso al Paese e farsi conoscere anche al di fuori del mondo delle parrocchie e dei circoli cattolici che aveva battuto per presentare il suo libro precedente, quello sull'articolo 3 della Costituzione. In questo modo avrebbe potuto ritagliarsi un profilo politico via via più marcato, e assumere un ruolo nel 2026, l'anno prima delle elezioni». L'abbecedario, insomma. A maggior ragione in un mondo come quello cattolico, in cui forma e sostanza non sono separabili. Ruffini, invece, ha scelto di uscire allo scoperto quando le condizioni non erano pronte. Col risultato che la sua entrata in scena, anziché salvifica, è stata ritenuta inopportuna e dirompente anche da chi avrebbe dovuto appoggiarla. Gli stessi giornali di riferimento della sinistra hanno provveduto a recapitargli le ragioni del malumore. Nell'edizione di ieri, Repubblica ha titolato su Ruffini che «irrita i centristi e i cattolici del Pd», ovvero quelli di cui dovrebbe essere il portabandiera. Il suo comportamento è giudicato «intempestivo e maldestro» e tra quelli che non avrebbero «preso benissimo» la sua accelerazione si cita Romano Prodi. La conclusione ha il sapore di una sentenza: l'ex capo dell'Agenzia delle Entrate, «per un mix di fretta e inesperienza, rischia di essersi auto-bruciato». Unpo' meno gelida è l'accoglienza che gli riserva Domani. L'editore del quotidiano, Carlo De Benedetti, è pur sempre quello che ha scritto un libro contro la flat tax e in favore di un'imposta patrimoniale progressiva, e i punti di contatto con l'ipotetico programma di «mister Fisco» non dovrebbero mancare. Anche lì, però, si evidenzia «la curiosa freddezza da parte Pd» e si fa presente che «Ruffini voti non ne ha. Ha una reputazione alta e amici prestigiosi. Ma non è un novello Prodi». Il rischio, insomma, è che il salvator mundi alla fine si ritrovi in compagnia di Fioroni, Bruno Tabacci e pochi altri. Non un federatore della coalizione (il «novello Prodi») e nemmeno il federatore dei cattolici di sinistra, ma solo l'ennesimo aspirante a un piccolo bacino di voti nel quale- in attesa di altri che verranno - già si muovono con più esperienza personaggi come Carlo Calenda, Matteo Renzi e Beppe Sala. Nessuno dei quali pare intenzionato a fare un passo indietro per lasciar passare avanti lui.
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