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Politica
Giuseppe Conte, interlocutore scomodo per chi tratta con lui
Oggi 26-10-25, 09:54
Fra persone normali e/o civili ci si scambia di solito l’invito a stare comodi. Ma Giuseppe Conte, l’ex presidente del Consiglio aspirante a tornare ad esserlo, per ora impegnato solo a farsi confermare elettronicamente, con i vecchi riti grillini, presidente del Movimento 5 Stelle, è particolare anche in questo. Egli si è difeso dall’accusa della vice presidente dimissionaria del partito ed ex sindaca di Torino Chiara Appendino di essere troppo accomodante nei rapporti col Pd, negando di esservisi mai alleato davvero, almeno a livello nazionale. E poi promettendo, assicurando e quant’altro che sarà comunque un interlocutore «scomodo» per chiunque volesse interloquire con lui. Dalla stessa Appendino, nel ruolo che le dovesse toccare nel gruppo dirigente del movimento pentastellato, alla segretaria del Pd Elly Schein e a quant’altri dovessero avere l’occasione di un rapporto politico con cotanta personalità. Siamo al paradosso anche fisico, o psicanalitico, di una comodità consistente nella scomodità da infliggere agli altri. Così forse si potrebbe capire e spiegare anche la storia dei rapporti avuti da Conte con Beppe Grillo e, prima ancora di lui, con Matteo Salvini, suo vice presidente del Consiglio nel primo dei suoi due governi, col collega ed amico di partito Luigi Di Maio nel suo secondo governo e con Mario Draghi quando gli dovette cedere Palazzo Chigi, nella scorsa legislatura. È stata tutta una storia di scomodità volontariamente vissute, anzi cercate, dentro ma anche fuori dai confini nazionali, perché in politica estera Conte ha ondeggiato fra Stati Uniti, Cina, Russia, da solo o in compagnia di Grillo prima che i loro rapporti si rompessero. Lui personalmente e politicamente, col movimento passato più o meno dalle cinque stelle al 5% dei voti locali, chissà quanto a livello nazionale fra due anni, Conte ha sofferto della scomodità così orgogliosamente e ostinatamente cercata. Ma ne ha sofferto anche il complesso della sinistra di cui egli si sente parte come “progressista indipendente”, anche da se stesso in qualche occasione in cui ha cambiato repentinamente posizione su problemi e uomini. Con una sinistra ridotta in questi termini a dir poco confusionari sono state un po’ di generosa ingenuità l’altra sera, a Otto e mezzo su La 7, Lilli Gruber e Lina Palmerini a chiedere all’ospite Romano Prodi le ragioni per le quali Giorgia Meloni riesca tenere i conti a posto senza perdere consensi, anzi aumentandoli, e gli antagonisti no. Compreso lo stesso Prodi quando gli capitò di «vincere due volte su Berlusconi», come ha ricordato in particolare la Gruber inorgogliendolo, ma poi non riuscendo a governare per più di un anno e mezzo e mandando alla sconfitta prima l’Ulivo, costretto a cambiare persino nome, e poi l’Unione. Incalzato imprevedibilmente dalle sue interlocutrici pur simpatizzanti verso di lui, Prodi mi è sembrato ad un certo punto annaspare nelle sue smorfie. Ma alla fine il professore ha dovuto ingoiare il rospo e ammettere che l’ancor suo Pd, dove lui vive praticamente all’attico dispensando consigli a chi glieli va a chiedere, è privo da solo e in compagnia degli altri aspiranti all’alternativa di un programma. Anzi, di una prospettiva. E gli elettori o preferiscono il partito di maggioranza che è diventato quello delle astensioni o votano a destra. Senza neppure turarsi il naso come la buonanima di Indro Montanelli raccomandava a quanti riusciva a convincere a votare per la Dc. Giulio Andreotti se ne rammaricava in pubblico ma, diavolo di un realista, lo ringraziava ricevendolo ogni tanto nel suo studio privato davanti a Montecitorio, a pochi passi dalla redazione romana del suo Giornale.
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