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Politica
I compagni e la sindrome del kebabbaro
Oggi 15-12-25, 06:01
La sindrome del «kebabbaro» è un disagio che si manifesta nella sinistra quando subisce la sconfitta, non elabora il lutto, non capisce l’avversario e ogni volta che lo vede, lo sente parlare, lo immagina, perde l’orientamento, barcolla, sbatte i piedi, e cade in uno stato che oscilla tra la prostrazione e la rabbia. Dopo più di tre annidi governo Meloni l’opposizione ancora non sa chi è Giorgia. Meloni è una professionista della politica, ha fondato 13 anni fa un nuovo partito che oggi è il primo in Italia, fa comizi e vita di sezione da quand’era ragazzina, ha frequentato l’università dell’opposizione e si è rivelata primadonna a Palazzo Chigi con la stoffa della grande leader europea del governo più stabile del Vecchio Continente. Meloni sa parlare al suo popolo, conosce i trucchi del mestiere, il suo intervento ad Atreju è un manuale di politica e costume. C’è il programma, la Nazione, le parole che servono per segnare la differenza tra «noi e loro», quel che si dice “l’impianto ideologico” di un partito conservatore europeo. Ma lo scacco matto è l’utilizzo del pop, della cultura popolare di cui la sinistra si è dimenticata. L’opposizione si schiera contro l’operazione sulla cucina italiana patrimonio dell’Unesco? Il suicidio ai fornelli dei tragical -chic contro il bucatino all’amatriciana di “Lollo” (Brigida) viene dipinto con la corsa della sinistra dal “kebabbaro”. È un colpo da Trilussa, è il gatto di «Er compagno scompagno» del poeta romano che prima si dichiara socialista, ma diventa conservatore quando mangia per non spartire il pollo con l’altro gatto che si dichiarava proletario. Casca tutto intero nella trappola retorica il “Fuffington Post” che sforna una lezione di bon ton culinario-istituzionale con bacchettata sulle mani alla «elegantissima Meloni». Ecco un’altra bandiera della sinistra, il kebabbaro. C’è aria di festa a Atreju. Siamo vicini al Natale, in casa si gioca a tombola e al Mercante in Fiera, Giorgia ricorda che la sinistra è «la carta della pagoda», quella che non vince mai, porta sfiga. I compagni, già sulla pista sciampagnata di Sankt Moritz, lanciano urla d’orrore per la deriva borgatara. La macchina narrativa di Meloni manda in cortocircuito la sinistra utilizzando le sue icone, i suoi simboli, di cui ha smarrito le tracce, si sono inalberati perché a Atreju si è discusso di Pier Paolo Pasolini, mesi prima era venuto il momento del Gramsci non si tocca. E la realtà è che a sinistra non li leggono, sono fermi alle citazioni. L’egemonia di cui si vantano i post-comunisti è un catorcio, fu Giovanni Raboni sul Corriere della Sera a scolpire la verità: i grandi scrittori sono di destra. Meloni solleva il coperchio del pentolone progressista che ha perso il contatto con il popolo che disprezza. Il suo discorso a Atreju è disseminato di cultura pop, quella che nel Pd non c’è più dai tempi delle “americanate” di Walter Veltroni. Quando Giorgia cita Antonello Venditti e fa incontrare Marx e Nietzsche, sta ribaltando il paradigma dei professoroni della Ztl, è lei che incarna la cultura popolare e può evocare John Lennon per fare il sottosopra e dire che con le sue canzoni «non si fa la pace», è lei che fa battere il cuore di Blaise Pascal, è lei che evoca Nanni Moretti per fiocinare Elly Schlein con un mi si nota di più se vado o non vado a Atreju? Alla fine, quel che si vede, quel che resta, quel che conta è una questione sentimentale, il frammento di un discorso amoroso: la forza della leadership, la sua relazione con il popolo e la sua cultura. Nella sinistra in corsa dal kebabbaro non c’è. È la cucina della politica.
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