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Michele Zaccardi: le patrimoniali ci costano 50 miliardi
21-01-2024, 20:31
L'ultima a lanciare l'idea è stata Elsa Fornero. Dalle colonne della Stampa, l'ex ministro del Lavoro del governo Monti ha proposto, per ridurre il deficit (e quindi il debito) e riequilibrare le disuguaglianze, di introdurre una patrimoniale sugli immobili. Ora, a parte il fatto che sulle seconde case una patrimoniale c'è già e si chiama Imu, resta da capire se l'Italia ha davvero bisogno di aumentare le tasse sulla ricchezza. Osservando i dati raccolti dall'ufficio studi della Cgia di Mestre sembrerebbe proprio di no. Nonostante l'abolizione dell'Imu sulla prima casa (2013), il gettito delle imposte patrimoniali negli ultimi anni ha continuato ad aumentare, toccando nel 2022 la cifra record di 49,8 miliardi di euro. In rapporto al Prodotto interno lordo, le entrate sono pari al 2,6%, il doppio dell'1,3% del 1990, quando lo Stato incassò 9,1 miliardi. Insomma, nel corso degli anni il peso dei balzelli sulla ricchezza dei contribuenti è cresciuto notevolmente. Di patrimoniali, poi, la Cgia ne conta una decina: si va dall'Imu, la più importante, con un gettito di 22,7 miliardi, all'imposta di bollo (7,7 miliardi), passando per il canone Rai (1,9 miliardi). Ma la lista è lunga e comprende pure il bollo auto, che genera incassi per 7,2 miliardi, l'Imposta di registro e sostitutiva (6,2 miliardi), l'Imposta ipotecaria (1,8 miliardi), le tasse su successioni e donazioni (1 miliardo), i diritti catastali (727 milioni di euro), il prelievo sulle transazioni finanziarie (461 milioni). TREND IN CRESCITA Come detto, la crescita del gettito derivante dalle patrimoniali è stata costante nel corso degli anni. Un trend da cui traspare un preciso disegno di politica fiscale. Se nel 1990 il gettito era pari a 9,1 miliardi, nel 2000 si sono raggiunti i 25,7 miliardi, cifra che è poi lievitata ancora a 30,1 miliardi nel 2005 e a 48,5 nel 2014, quando si toccò l'apice in rapporto al Pil (3%). In tutti questi anni sono stati numerosi gli interventi per aumentare l'imposizione sulla ricchezza, sia finanziaria che immobiliare. Un primo scalino risale al 1992. Per riequilibrare i conti pubblici, il governo Amato vara, nella notte di venerdì 10 luglio, il prelievo forzoso sui conti correnti (6 per mille delle somme depositate). Nel '92 il gettito garantito dalle patrimoniali sale così a 18,3 miliardi (il 2,3% del Pil) e l'anno successivo a 23,2 (2,8%). Le entrate crescono in modo progressivo fino al 2011 (31 miliardi) per poi impennarsi di nuovo nel 2012. Al governo c'è Mario Monti che, alle prese con la crisi finanziaria, decide di reintrodurre l'Imu sulle prime case (l'Ici era stata abolita nel 2008 da Berlusconi) e altri balzelli che portano il gettito a 44,5 miliardi. Da allora le entrate da patrimoniali sono aumentate a un ritmo più lento, arrivando a 49,8 miliardi nel 2022. LA TASSA OCCULTA Per la Cgia, però, c'è un'altra tassa (occulta) che ha colpito il patrimonio degli italiani negli ultimi due anni: l'inflazione. Tra il 2022 e il 2023, la corsa dei prezzi è costata ai contribuenti la bellezza di 163,98 miliardi di euro. Cifra a cui l'ufficio studi della Cgia arriva ipotizzando che i depositi bancari siano rimasti gli stessi rispetto al 31 dicembre 2021. L'inflazione cumulata del 2022 e del 2023, pari al 14,2%, ha così colpito i 1.152,3 miliardi depositati sui conti correnti, che fino a poco tempo fa non pagavano interessi. Ciasuna famiglia, calcola la Cgia, ha subito una sforbiciata ai propri risparmi di 6.257 euro. A contenere i danni sono stati solo quei nuclei che hanno usato i propri depositi per investire in titoli di Stato. Ma c'è un altro punto che la Cgia sottolinea nel suo studio. Ovvero che tra il 2010 e il 2019 le entrate fiscali sono cresciute di pari passo con l'aumento della spesa pubblica. Per garantire la tenuta dei conti pubblici, le prime hanno inseguito la seconda, con il risultato che la pressione fiscale in Italia ha superato la soglia del 43 per cento. Per questo, oltra a una seria lotta all'evasione, la Cgia suggerisce di tagliare la spesa pubblica corrente (dunque non quella per investimenti) attraverso una rigorosa spending review.
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