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Cultura e Spettacolo
Tra Palazzo Strozzi e San Marco, nel silenzio luminoso di Beato Angelico
Oggi 25-11-25, 01:43
AGI - Entrare nel cortile di Palazzo Strozzi, a Firenze, in una chiara mattina di fine novembre, è come varcare una soglia sospesa tra passato e presente. Le pietre “bronzee” del palazzo rinascimentale vibrano di un’attesa sottile: qui, in uno dei centri più dinamici della cultura italiana, sta per prendere forma un dialogo inatteso con uno dei padri del Rinascimento. Beato Angelico non è soltanto una mostra, è un incontro ravvicinato con una perfezione che, ancora oggi, sa trafiggere. È la prima grande esposizione dedicata al pittore dopo settant’anni, visitabile fino al 25 gennaio 2026. Frutto di quattro anni di ricerche, restauri e ricongiungimenti di opere disperse nel tempo, riunisce più di 140 capolavori provenienti dai maggiori musei del mondo. Una costellazione di tavole, miniature, disegni e sculture che restituisce la voce di un artista capace di muoversi tra cielo e terra con naturalezza assoluta. La pittura di Beato Angelico – Guido di Piero, poi Fra Giovanni da Fiesole – sembra respirare. Le superfici sono placide e vibranti, animate da figure che incarnano un ideale spirituale e umano insieme. È un’arte che nasce dal tardogotico ma abbraccia i principi del Rinascimento: prospettive che aprono spazi nuovi, luci che accarezzano i volti, un equilibrio naturale tra figure e ambienti. A Palazzo Strozzi il percorso si articola in otto sezioni, cronologiche e tematiche. Ogni sala introduce un varco nell’universo dell’artista: gli esordi, le prime audacie prospettiche, i dialoghi con Lorenzo Monaco, Masaccio, Ghiberti, Michelozzo, Luca della Robbia. È come sfogliare un libro le cui pagine sono oro, blu oltremare e silenzi. Ripenso all’imponente lavoro di restauro: quasi trenta opere recuperate o sottoposte a indagini diagnostiche. Penso alle mani dei restauratori, alla pazienza con cui hanno restituito respiro e leggibilità a colori antichi. È un gesto di cura che commuove e che la mostra documenterà in un volume dedicato. Particolarmente emozionanti sono le ricostruzioni grafiche delle grandi pale smembrate nei secoli. Vederle finalmente riunite – anche solo virtualmente – è come assistere al ricomporsi di un corpo disperso. Due, la Pala di San Pietro Martire e la Pala di Fiesole, sono esposte a San Marco accanto agli originali; le altre, tra cui la Pala Strozzi, l’Incoronazione della Vergine e il Trittico francescano, trovano spazio a Palazzo Strozzi, accostate alle tavole superstiti. Una ricostruzione tridimensionale delle cappelle Strozzi a Santa Trinità restituisce persino l’allestimento originario della Pala Strozzi. Eppure, davanti alle opere, tutto il contesto svanisce. Rimango fermo, colpito dalla forza spirituale che le attraversa. Angelico non dipinge per stupire: dipinge per far meditare, per generare pace. Il viaggio prosegue a San Marco, il convento dove il frate pittore visse e lavorò. Uscendo da Palazzo Strozzi, porto con me la sensazione di una voce che vuole continuare a parlare. San Marco accoglie con la luce sobria che Angelico posava sugli angeli: una luce che non abbaglia, ma rischiara. Qui il percorso si apre nella grande sala al pianterreno, dedicata agli esordi dell’artista, e prosegue nella Biblioteca, con sezioni dedicate al miniatore e ai codici umanistici un tempo custoditi nel convento. È un luogo che vibra della sua memoria, in naturale dialogo con gli affreschi delle celle. Le celle affrescate da Angelico, gli ambienti ordinati da Michelozzo su volontà di Cosimo de’ Medici, custodiscono la più vasta collezione al mondo dell’artista. Qui l’esperienza si trasforma: non più semplice osservazione, ma immersione in uno spazio dove spiritualità, politica e cultura del Quattrocento si intrecciavano. Penso a sant’Antonino Pierozzi, ai monaci che qui meditavano accompagnati da quelle immagini. In una sala, il Cenacolo di Ghirlandaio; poco oltre, le opere di Paolo Uccello, Fra Bartolomeo, Sogliani, le terrecotte dei Della Robbia. Ma sono le celle affrescate da Angelico a colpirmi più di tutto: figure che sembrano respirare il silenzio, parte stessa dell’aria. Penso che non furono create per la gloria museale, ma per la contemplazione quotidiana. Quando esco dal convento, la luce di Firenze sembra mutata: più limpida, più rarefatta. Forse è suggestione, o forse l’effetto di quell’arte che – come ricorda il direttore di Palazzo Strozzi Arturo Galansino – sa "guardare al passato e al proprio presente proiettando un linguaggio nuovo verso il futuro". Un linguaggio che questa mostra irripetibile restituisce con forza. Ripenso alle parole dei curatori: questa esposizione è un punto d’arrivo, ma anche un trampolino. Per me è soprattutto un ricordo intimo: l’impressione di aver sfiorato, per un istante, un’idea di perfezione che non appartiene solo all’arte, ma all’umano. Una perfezione che Beato Angelico, ancora oggi, riesce a rendere visibile.
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