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Caso Becciu, la firma di Parolin e quell'«ordine» di Papa Francesco
Oggi 06-05-25, 07:56
Dopo il caso del documento con la firma del cardinale Pietro Parolin che autorizza l'operazione dell'affare di Londra, per cui Angelo Becciu è finito nei guai, e dopo la chiusura del processo inglese, arriva anche la procura che, dal 2013, attribuiva al porporato escluso dal Conclave tutti i poteri di operare per portare avanti la compravendita. Una sequenza di documenti, tra cui uno del primo luglio 2013 firmato dall'allora segretario di Stato Tarcisio Bertone, che dimostrerebbero come Becciu non si sia mai mosso per conto proprio, ma sempre su mandato della Segreteria di Stato, fino all'operazione finale, quella poi contestata, che aveva la firma di Parolin. Dal Vaticano, dove sulla testa dei cardinali pende ormai da giorni il caso Becciu, non arrivano commenti formali. Ma chi ha potuto ascoltare le persone vicine alla Segreteria di Stato spiega che quella firma, apposta al memorandum sull'affare di Sloane Avenue dal papabile Parolin il 25 novembre 2018, sarebbe certo l'avallo all'operazione, ma in quel momento sarebbe stato necessario per mettere freno alle ingenti perdite finanziarie che stavano pesando sui fondi dell'Obolo di San Pietro, con quelle cifre extrabilancio destinate ai poveri ma usate per fare business. Da Oltretevere, dunque, si tentava una strada alternativa per arginare il danno, al punto da decidere di disinvestire nel fondo del finanziere Raffaele Mincione, proprietario del palazzo di Londra con il quale era stato firmato un accordo per la compravendita, e stipulare nuovi contratti con la società lussemburghese Gutt.Sa, di proprietà del broker Gianluigi Torzi. Una strategia che non ha comunque portato a casa i frutti sperati, visto che alla fine l'operazione è costata alla Santa Sede 40 milioni di euro, oltre a una condanna dell'Alta Corte londinese al risarcimento di 4 milioni di euro di spese processuali nei confronti di Mincione. In Vaticano c'è chi ripete che ci sarebbe stato un memorandum, presentato a Papa Francesco, grazie al quale Bergoglio si sarebbe reso conto del rischio di quell'operazione e avrebbe dato mandato a Parolin per disinvestire nel Fondo di Mincione. Il segretario di Stato, insomma, avrebbe semplicemente obbedito a un ordine del Pontefice. Anche se l'unico documento, davvero esistente, che porta una firma pontificia sulla «rottura» dei contratti con il finanziere e l'avvio dell'operazione con il broker risale a due anni dopo. Ovvero a novembre 2020, quando l'amministrazione dei fondi della Chiesa era stata tolta alla Segreteria di Stato e trasferita all'Apsa, l'Amministrazione del Patrimonio della Sede apostolica, sotto il controllo e la vigilanza della Segreteria per l'Economia. Bergoglio, secondo una comunicazione della Santa Sede, aveva espresso questa sua volontà in una lettera a Parolin. Si tratterebbe quindi di un ordine riservato, una decisione scaturita dallo studio di quel memorandum con tutti i dettagli della compravendita, spiegati non solo nei profili critici dell'operazione, ma anche in merito ai «rischi reputazionali» cui il Vaticano avrebbe potuto incorrere. Quell'ordine di Bergoglio, però, è rimasto nelle segrete stanze di San Pietro, dato che non è agli atti del processo contro il cardinale Becciu.
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