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Manager pubblici, da amministratori a "imperatori delegati"
Oggi 25-05-25, 09:39
Da amministratori delegati a imperatori delegati: è questa la metamorfosi dei nostri manager pubblici. Negli ultimi dieci anni il controllo politico e parlamentare si è dissolto. Entrano in scena come meteoriti incandescenti, solo per tentare l'aggancio con l'unica vera stella polare: Giorgia. Attorno a lei gravita un sistema solare in miniatura. C'è Patrizia Scurti, alias Madame Wolf, che regola le maree; Alfredo Mantovano, l'uomo che calibra le orbite; Alessandro Monteduro, che emette segnali fotonici in codice Morse; Giovanbattista Fazzolari, cometa ricorrente dalle scie imprevedibili; il gabbiano Emilio Scalfarotto, corpo celeste errante, senza asse fisso; Francesco Filini, satellite geostazionario. I candidati all'apoteosi lo sanno: prima ci si lucida per riflettere al meglio il neon meloniano; poi, se tutto va bene, si ottiene la corona celeste che li consacra «imperatori delegati». Nei mesi delle nomine, gli aspiranti imperatori si presentano a Palazzo Chigi come novizi in ritiro spirituale: tutti umili, patriottici, innamorati dell'interesse della Nazione. Ma una volta ottenuto il timbro, l'incantesimo si spezza. Non c'è una sede stabile di indirizzo politico-strategico e ogni riferimento alla politica industriale risulta, di fatto, sterile. Lo Stato, che ha investito per decenni in quelle società, diventa d'un tratto «invadente», le direttive, «interferenze», e il Parlamento? Un residuato archeologico da Prima Repubblica. I manager pubblici sono creature anfibie: formalmente statali, ma con lo sguardo fisso su Bruxelles o Wall Street. Restano in carica per anni, si blindano in cda a grappolo, coltivano relazioni con fondi e banche d'affari. Le retribuzioni lievitano, le responsabilità evaporano. Le liquidazioni milionarie sono da jackpot del Superenalotto, mentre chi dovrebbe controllarli resta inchiodato al tetto dei 240 mila euro l'anno. Le direttive del governo? Ben vengano, purché non disturbino il manovratore. Scatta allora la liturgia del mercato: autonomia della governance, best practice, fiducia degli investitori. Peccato che troppo spesso si dimentichi che lo Stato è l'azionista. E che in settori come energia, telecomunicazioni, infrastrutture, servizi pubblici - beni comuni, almeno in teoria – l'interesse strategico dovrebbe precedere qualsiasi storytelling neoliberale. A peggiorare il quadro, c'è una stortura divenuta ormai prassi: a ogni cambio di governo, o anche solo di ministro – con eccezione di Farnesina, Difesa e Viminale – scatta il reset. Si cancella tutto: esperienza, competenze, memoria istituzionale. Nelle aziende poi il «Top Management» solido e autorevole del passato è stato sostituito da una categoria più effimera: i «collaboratori dell'ad». La fedeltà ha scalzato il merito. È la damnatio memoriae del nostro tempo. È capitato in passato che chi guida questi colossi abbia agito senza alcuna visione industriale, animato solamente da logiche speculative degne della finanza più spregiudicata o, più banalmente, da un'ansia di promozione alla prossima poltrona. Nel frattempo, lo Stato italiano resta un'entità curiosa: onnipresente nell'economia, ma senza regia. Il Mef si comporta da sleeping partner, più attento alle trimestrali e ai dividendi che alle missioni industriali. Palazzo Chigi cerca di tenere insieme i pezzi, ma la complessità degli impegni nello scenario globale rende l'impresa quasi una mission impossible. Un caso recente lo dimostra. Una grande utility pubblica, al centro del dibattito sulle tariffe energetiche, ha deciso di agire in piena autonomia, ignorando sia le richieste del governo sia quelle degli industriali. Ognuno per sé. L'occasione sarebbe stata propizia per ridefinire il rapporto tra indirizzo pubblico e autonomia industriale. Ma il rischio, altissimo, è che finisca tutto, come al solito, nel dimenticatoio. Ebbene, forse è il caso di ricordare che lo Stato attraverso Cdp detiene partecipazioni non per ragioni occasionali – salvo eccezioni – ma perché l'impresa in questione riveste un ruolo strategico per il sistema industriale del Paese o produce un bene pubblico di particolare rilevanza. Eppure, non è sempre stato così. Nella Prima Repubblica, con tutti i suoi vizi, esisteva un metodo di coordinamento: Cipe, Cipes, Cnel, Iri, commissioni parlamentari, ministri veri con ruoli precisi alle Partecipazioni statali e all'Industria. I manager sapevano di dover rispondere, e a chi. I presidenti delle commissioni parlamentari – da Paolo Cirino Pomicino a Daniele Capezzone, due mondi lontani – erano sentinelle, non figuranti. Erano presìdi di sovranità vera, per il bene dell'economia. Il confronto era ruvido, ma nessuno poteva permettersi di ignorare lo Stato. Oggi persino alcuni presidenti delle società di Stato – nati per vigilare sull'interesse pubblico e preziose cerniere tra potere e istituzioni – sono a volte ridotti a mere comparse ben remunerate. E i consiglieri d'amministrazione, da sempre frutto di lottizzazione consapevole, sono ora sempre più spesso scelti senza alcuna competenza. E così, parlare di strategia nazionale è diventato un esercizio di stile. Le partecipate non si parlano, non fanno sistema. In Francia, Edf, Engie e Total si muovono come un blocco solo. In Germania, le aziende pubbliche sono il braccio operativo della politica industriale. In Italia? L'interesse nazionale si invoca ai convegni, ma scompare nei verbali dei consigli d'amministrazione. E qui risiede il vero paradosso italiano: uno statalismo di facciata, senza Stato. Una tecnocrazia fuori controllo, che guarda – per citarne solo due – più a BlackRock o a JPMorgan che a Palazzo Chigi. Un capitalismo pubblico che si crede superiore alla politica, ma che di nomine campa. Finché restiamo prigionieri di questa commedia, ogni strategia sarà solo una sceneggiatura senza regia. Il Piano Mattei, la politica industriale, la diplomazia economica: nulla può funzionare se gli imperatori delegati non fanno più squadra tra loro e non vanno all'unisono con chi guida il volante in virtù dell'investitura popolare. Meloni sembra averlo intuito. Ma accorgersene non basta: bisogna spegnere l'incendio, non scaldarsi alla sua luce.
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