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Non è un disastro, ma un avvertimento. L'Ue che non è potenza diventa bersaglio
Oggi 29-07-25, 08:02
E così, nel giro di qualche ora, la stretta di mano tra Ursula von der Leyen e Donald Trump per sancire l'accordo sull'imposizione di dazi al 15% da parte degli Stati Uniti su una selezione di prodotti europei si è trasformata in uno psicodramma collettivo a suon di: «Attacco all'Europa», «Guerra commerciale», «Bullismo di Washington». E compagnia delirante. Con tanto di dotti commenti sulla catastrofe economica per la povera Europa e per il nostro piccolo, debole Paese. Tralasciando le risibili accuse provenienti da sinistra a Giorgia Meloni, individuata come artefice principale della debacle europea, quasi fosse lei a reggere la maggioranza Ursula in Ue e non il Pd. Ma la verità, al solito, ha un sapore meno teatrale e più politico. Non siamo al cospetto di un disastro economico. I dazi colpiscono settori specifici, non l'intera architettura del commercio transatlantico. Non è un terremoto, ma uno scossone. Fastidioso, sì. Strategico, certo. L'amministrazione americana — ormai è chiaro – non ha intenzione di distruggere l'Europa, ma sta mettendone alla prova la coesione. E in questo, purtroppo, ha gioco facile. Perché l'Unione Europea continua a presentarsi al mondo come un gigante economico con i piedi d'argilla. Una somma di Stati, non un solo Stato. Una potenza commerciale, ma senza una vera sovranità. Un mosaico disomogeneo, incapace di rispondere in modo unitario quando viene colpito. Trump — e tutti quelli, Cina compresa, che l'hanno capito e seguono la linea — lo sa. E agisce di conseguenza: divide per negoziare meglio. Parla con Berlino di auto, con Parigi di aeronautica, con Roma di prodotti agricoli. Non tratta con l'Europa, ma con gli europei. E funziona. In questo contesto, la reazione dell'Unione Europea deve essere lucida. Ma soprattutto politica. Non bastano le contromisure tecniche o i ricorsi agli organismi di tutela internazionale del commercio. Serve una scelta storica: quella di comportarsi — finalmente — come un Paese unico. In un mondo ideale la risposta all'imposizione dei dazi dovrebbe essere una, netta, condivisa, autorevole. Del tipo: «Se colpisci uno di noi, colpisci tutti». Ma per poterlo dire davvero, bisogna avere strumenti comuni: una politica commerciale, un bilancio centrale, una voce esterna unica, magari un debito comune. Non bastano i vertici di Bruxelles o le dichiarazioni congiunte. Serve costruire una vera sovranità europea. In fondo, il punto essenziale che i dazi sollevano non è la fragilità dei nostri prodotti, ma quella delle nostre istituzioni. Finché l'Europa resterà un'unione di Stati, e non uno Stato, sarà sempre esposta a pressioni di questo tipo. I dazi del 15% sono tutt'altro che la fine del mondo. Ma devono essere un campanello d'allarme. Un pungolo. Una spinta a trasformare l'Europa da progetto economico a soggetto politico. Perché nel mondo che viene, e con il quale bisogna attrezzarsi per fare i conti, chi non è potenza diventa bersaglio. E se questa volta non rispondiamo con coraggio, non ci saranno dazi abbastanza piccoli da nascondere il nostro fallimento.
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