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Castro: vanno tolti i vincoli Ue per proteggere i confini
15-06-2024, 15:00
È il caso di cominciare a riflettere seriamente se dar vita ad un fondo comune europeo per far fronte al moltiplicarsi delle situazioni di conflitto. È stato fatto per il Covid (Recovery Found da noi tradotto Pnrr), c'è da chiedersi perché non farlo in chiave sicurezza. Quantomeno scorporando le spese della difesa dal Patto di stabilità europeo. A parole sembra semplice. Nei fatti ballano miliardi (in tutto centinaia di miliardi) che ogni anno garantiscono ai Paesi del Patto Atlantico di poter erigere un “muro” difensivo. L'Europa è ad un bivio: deve decidere. L'esempio del conflitto Russia Ucraina dovrebbe averci insegnato qualcosa. Se l'Europa, sotto l'ombrello Nato, non avesse garantito a Kiev una corposa fornitura di aiuti economici, logistici, alimentari e militari, il gigante russo avrebbe fatto un sol boccone della “piccola” Ucraina. E dopo 843 giorni di conflitto non staremmo qui a ciarlare dell'ultima proposta del Cremlino- anticipata giusto ieri da Vladimir Putin - di mollare quattro regioni dell'Ucraina per chiudere il conflitto. Sembra passata un'era geologica dal 24 febbraio 2022. Da quando le truppe russe passarono i confini ucraini per dare avvio alle ribattezzate “operazioni speciali” lanciate da Mosca per bloccare l'allargamento ad Est del fronte occidentale. Poi venne fuori il ricatto energetico. E così si scoprì che l'Europa era attaccata alla canna del gas sovietico. Ne sanno qualcosa in Germania che da locomotiva di traino dell'economica europea si sono trovati impantanati in una recessione. Tralasciando il dettaglio che uscivamo non proprio indenni dai danni della pandemia da Covid. E ancora oggi ne paghiamo le conseguenze: le bollette esplose, la Banca centrale europea costretta a pompare liquidità nelle economie europee (acquistando titoli di debito come se non ci fosse un domani), la congiuntura mondiale invischiata in una destabilizzazione imprevista. Sembrava finita qui. E invece si era soltanto spostato l'asse delle emergenze. Il problema delle migrazioni di massa dal fronte del Mediterraneo bussava alle porte dell'Europa. La Polonia, la Germania, l'Italia cominciarono ad accogliere milioni (non qualche centinaio di migliaia di disperati dall'Africa). Arrivarono donne e bambini con i pochi vestiti che avevano addosso. La certezza di una vita tranquilla nell'Europa continentale sfumava via. Passato il primo momento di stupore, gli Stati europei cominciarono a costruire un nuovo “cordone sanitario” ma questa volta di tipo militare. Si era risvegliato l'orso sovietico che con la dissoluzione dell'Urss pensavamo si fosse definitivamente disgregato in una Comunità di stati indipendenti (Csi). E invece Zar Putin ha ricominciato a mettere in piedi il blocco ex sovietico. Lo testimoniano le triangolazioni di forniture che bypassano l'embargo tentato dall'occidente e passano da Tagikistan, dal Kazakhstan, dell'Uzbekistan. Pure il fantomatico blocco delle esportazioni di greggio sovietico è un miraggio. Mosca ha messo in piedi una “flotta fantasma” di super petroliere per spacciare il greggio e dirottarlo verso clienti (India, Cina, Siria, Africa) che non hanno aderito al blocco occidentale. Il greggio russo viene trasbordato in mare. Oppure le navi battenti bandiera di Stati compiacenti- secondo l'ultimo monitoraggio del Royal United Services Institute, il più importante think tank britannico in materia di difesa e sicurezza - ciondolano tra il Mediterraneo e i porti del nord Europa. A Kaliningrad - l'unico porto dell'enclave russa al centro dell'Europa ad un passo dai Paesi del Baltico - c'è un via vai di imbarcazioni che trasportano beni, armi e derrate per le truppe impegnate sui diversi fronti. Basta una visione globale - non tralasciando il conflitto mediorientale che dal 7 ottobre ha precipitato Israele nella guerra panaraba più lunga della sua storia - per rendersi conto che è tutto un ribollire ravvicinato di scontri e conflitti. A Washington, a luglio, i Paesi Nato decideranno i nuovi equilibri e indicheranno chi prenderà il posto del segretario Nato (il norvegese Jens Stoltenberg). Con Mosca che preme sui confini nord orientali del baltico la scelta di una guida condivisa e credibile è una mossa che non si può sbagliare. E fin qui la politica. Poi c'è il dettaglio, non trascurabile, degli stanziamenti. L'Italia a fatica destina circa l'1,5% del Pil annuo come contributo alle casse del Patto atlantico. C'è chi vorrebbe far lievitare l'obolo al 2%. In soldoni si dovrebbero sborsare 40 miliardi in più. Il ministro della Difesa italiano, Guido Crosetto, da tempo ripete che il nostro Paese non può versare un obolo tanto oneroso (siamo al quinto posto come contributori dopo Usa, Regno Unito, Germania e Francia), rispettando gli stretti binari del patto di stabilità europeo. Delle due l'una: o ci si prepara a difendersi sborsando più quattrini e potenziando mezzi e organici («servono, come minimo, 10mila uomini in più», ha fatto di conto il capo di Stato maggiore della Difesa, l'ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone), oppure si rispettano i calcoli di Bruxelles. Anche per questi motivi la partita europea - con la scelta dei nuovi vertici Ue e Nato- è tanto importante. In ballo c'è qualcosa in più dell'equilibrio contabile.
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