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Il piano Draghi e il ritorno alla storia
16-02-2024, 07:39
Nel 1991 George H. W. Bush disse: «Nessuna nazione al mondo ha scoperto un modo per importare i beni e i servizi del mondo fermando le idee straniere alla frontiera». Eravamo all'alba di una iper-globalizzazione che sarebbe durata trent'anni, due anni prima era crollato il Muro di Berlino, l'Unione Sovietica era de facto dissolta (il The End del film dell'Urss arrivò il 26 dicembre del 1991), la comunità internazionale pianificava un impossibile “atterraggio morbido” del gigante sovietico e il suo ingresso nel mercato che poi avrebbe condotto dal totalitarismo alla democrazia. Era il momento del trionfo del capitalismo e dell'ordine liberale, raccontato nel 1992 da Francis Fukuyama in un libro intitolato La fine della storia e l'ultimo uomo. Mario Draghi ha citato la frase di Bush in un suo intervento a Washington D.C. (dove ha ricevuto il premio Volcker alla carriera) per segnalare che un lungo ciclo economico si è chiuso. La storia non è finita, è tornata, l'illusione dell'andamento lineare e continuo del “progresso” è svanita (e bastava leggere un secolo prima, nel 1924, Oriente e Occidente di René Guenon per andarci cauti), il “regresso” appare davanti a noi in inquietanti forme antiche e in bagliori di un futuro che pensavamo possibile solo nella science-fiction. Siamo precipitati nella trappola della doppia chimera democratica: sulle ceneri dell'Unione Sovietica è (ri)nata una Russia oligarchica, dispotica e guerrafondaia; mentre l'ingresso della Cina nel Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio, non ha contaminato il Dragone liberandolo dalla dittatura, al contrario, ha creato un nuovo culto maoista. Oggi due autocrati, Vladimir Putin e Xi Jinping, sfidano l'Occidente, hanno in mente un nuovo ordine mondiale, rivendicano sfere d'influenza ancora più vaste (e letali) di quelle dei tempi della Guerra Fredda. Draghi fa un'analisi retrospettiva, individua i bachi del software e le debolezze dell'hardware della globalizzazione, traccia un'idea di nuove politiche per oggi e domani. Ma gli errori sono della classe dirigente alla quale lo stesso Draghi appartiene. E questo, accanto al valore assoluto della sua figura, non passa inosservato. Da banchiere centrale, Draghi salvò l'architettura della moneta unica quando apparve chiara la fragilità dell'Eurozona di fronte a uno shock finanziario; da osservatore esperto dei fatti economici, mise nero su bianco (con un articolo sul Financial Times) un cambio radicale del paradigma dell'austerità e l'inizio di un'era di “debito buono” che arrivava a far decollare l'helicopter money per frenare la crisi spaventosa provocata dalla pandemia e dai lockdown delle attività economiche; da presidente del Consiglio, sperimentò la “fatica del politico” (fino a fallire l'aggancio con l'elezione al Quirinale) e la crisi della democrazia di cui si vedono le crepe in tutto l'Occidente. La pandemia non è stata il picco della crisi, ma un voltapagina della storia, un nuovo inizio e non appare come un'età dell'oro. Quando Draghi afferma che i cittadini si aspettavano «un uso più attivo della “pratica di governo” – assertività nelle politiche commerciali, protezionismo o redistribuzione che fosse», centra il punto, ma la sua proposta ha una sostanziale continuità culturale con quella che ha aperto una voragine tra governanti e governati. Restano in piedi le strategie politiche che non hanno funzionato quando si è aperto un nuovo conflitto tra le grandi potenze, c'è la sensazione che il “pilota automatico” sia ancora attivo. Draghi pensa a un coordinamento più forte delle politiche macroeconomiche (e dunque a una cessione ancora più marcata di sovranità, è il caso dell'Unione europea), mentre la geopolitica sta separando il mondo tra “l'Occidente” e “il resto”, dove quel che resta (la Russia, la Cina, l'India, buona parte del Sudamerica e dell'Africa) è demograficamente più potente, giovane e “desiderante”, in molti casi in piena rivoluzione, pronto a soddisfare le sue pulsioni in una battaglia dove ci saranno vincitori e vinti. Affidare la politica alla “scienza triste” è un grave peccato di presunzione. Perché non tutto - per fortuna e per disgrazia - è economia e quando gli economisti falliscono l'aggancio con il signor Zeitgeist, lo spirito del tempo, le previsioni e le politiche che ne seguono la scia diventano imprevisti che pagano i più deboli. L'esempio arriva dall'abbaglio collettivo sull'inflazione, che quasi tutti gli esperti definivano “temporanea” mentre la cavalcata dei prezzi stava diventando “permanente” per effetto di un cambio repentino della geopolitica, al punto da costringere le banche centrali a strambare (in ritardo) sui tassi. L'economia è globale (oggi meno che nel recente passato), ma la politica è locale, sempre più frazionata, con la creazione di tribù “vocianti” che cambiano rapidamente opinione, un'accelerazione dei ribaltamenti delle maggioranze, mutamenti di leadership e scenario. Destra e sinistra sono intrappolate in dogmi asincroni rispetto allo scorrere del tempo presente, ai suoi tumulti che bussano alla porta. È tornata la storia, la fanno (e disfano) le nazioni.
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