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Caporalato: 13 brand per 12 miliardi di giro d'affari, carabinieri bussano a Prada, Gucci e Versace
Oggi 04-12-25, 21:06
Un'inchiesta "light", sul caporalato nelle filiere della moda italiana, che può mutare il panorama del settore. I carabinieri del Nucleo ispettorato del lavoro di Milano mercoledì sono andati a bussare alle porte del meglio del made in Italy: Dolce & Gabbana, Prada, Versace, Gucci, Missoni, Ferragamo, Yves Saint Laurent, Givenchy, Pinko, Coccinelle, Adidas, Alexander McQueen Italia, Off-White Operating. In mano una "richiesta di consegna" atti firmata dal pm Paolo Storari che chiede la consegna spontanea di bilanci, verbali di cda, elenchi fornitori, contratti, audit, modelli di governance con cui arginare il sospetto che è venuto agli inquirenti: che anche negli appalti della mezza dozzina di maisons che da sole valgono 12,4 miliardi di euro di giro d'affari si nasconda lo "sfruttamento" di operai cinesi e pakistani irregolari dentro opifici clandestini in cui ai macchinari vengono rimossi i "dispositivi di sicurezza", le paghe erogate sottosoglia o inesistenti, così come ferie, contributi. Che si ristorano in dormitori abusivi, ma senza troppo dormire, almeno a giudicare dalle curve di consumo elettrico acquisite dagli investigatori dell'Arma che mostrano impianti h24 attivi di sabato e domenica. Ipotesi non così peregrine visto che le prime embrionali ispezioni dei sub-fornitori fra Lombardia, Toscana e resto della Penisola, condotte anche in occasione dell'inchiesta su Tod's e 3 manager, hanno già rilevato 203 operai di "etnia cinese in condizioni di pesante sfruttamento" e fino 7 livelli di sub-appalto con il sequestro di borse di svariati marchi come Madbag, Zegna, Saint Laurent, Cuoieria Fiorentina e Prada. La notifica è una sorta di 'warning' e un invito a sistemare le "criticità" senza il coinvolgimento dell'autorità giudiziaria che nell'ultimo anno e mezzo ha chiesto e ottenuto misure di amministrazione giudiziaria, alcune già revocate dopo la 'bonifica', per i competitor di Alviero Martini spa, Armani Operation, Manufacture Dior, Valentino Bags Lab, Loro Piana di Louis Vuitton per agevolazione colposa (ma inconsapevole) oltre al colosso marchigiano guidato dai Della Valle su cui pende la spada di Damocle dell'interdittiva pubblicitaria con l'accusa di aver ignorato, in "piena consapevolezza", le condizioni di lavoro "ottocentesche" e di "para schiavitù". La Procura diretta da Marcello Viola non intende vessare le aziende - che dai bilanci mostrano situazioni a macchia di leopardo con anche contrazioni di fatturati e utili a causa dei contesti internazionali (ai due estremi Gucci che fa ricavi per 5 miliardi di euro e profitti 461 milioni e Dolce & Gabbana sopra il miliardo di produzione ma un rosso da 204 milioni nell'ultimo anno) - ma non può fingere di non vedere ciò che esiste. E quindi passa dall'approccio che Storari ha denominato, citando la Cassazione e lo studioso australiano John Braithwaite, "moderna messa alla prova aziendale" in cui è banale immaginare che le "situazioni tossiche" dipendano dalla "personalità perversa" di singoli manager e non dai modelli di produzione e di organizzazione del lavoro, a un approccio da giustizia riparativa preliminare. Che i casi nel lusso non siano isolati è un fatto: oltre alle 13 aziende oggetto della maxi inchiesta sin dal primo provvedimento di 'commissariamento' su Alviero Martini spa, nato da un fornitore cinese di Trezzano sul Naviglio - la Crocolux, in cui un 26enne del bangladesh nel 2023 ha perso la vita al suo primo (presunto) giorno di lavoro in cui i datori tentarono di regolarizzarlo presso l'Inps dopo l'incidente letale - si era scoperto che l'opificio fosse appaltatore "di numerosi marchi del lusso mondiale" mette a verbale il direttore del prodotto del marchio. Dalle testimonianze si parla di meccanismi identici dentro le filiere di "Zara, Diesel, Hugo Boss, Trussardi, Tommy Hilfiger, Gianfranco Ferré, Marlboro, Replay, Levis". La trama sempre la stessa: cinture, borse, scarpe, tomaie, accessori prodotte a costi di poche decine di euro e rivendute al dettaglio a diverse migliaia di euro con ricarichi fino al 10.000%. E' "necessario appurare il grado di coinvolgimento" dei brand si legge negli atti. L'inchiesta spaventa il mondo industriale. Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, è preoccupato dagli "impatti" in un momento "importante per i consumi" come il periodo natalizio mentre Confindustria Moda e Confindustria Accessori Moda stigmatizzano la "spettacolarizzazione mediatica, che rischia di generare un danno profondo e ingiustificato all'immagine e conseguentemente all'economia dell'intero settore". Dure le segreterie generali di Filctem Cgil, Femca Cisl, Uiltec Uil che parlano di "denunce" e "schizofrenia" del settore che tiene insieme "l'eccellenza del Made in Italy" e "la ricerca del massimo profitto con la minimizzazione dei costi, lo sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, la violazione dei loro diritti, i rischi legati al tema salute e sicurezza" e chiedono al Governo ascolto in vista delle modifiche Del sulle PMI ora all'esame della Camera. Intano 10 delle aziende coinvolte hanno già fatto sapere in Procura di essere pronte a collaborare. Le situazione vanno analizzare singolarmente ma molte sono le misure adottabili: dal rafforzamento degli organismi di vigilanza, all'internalizzazione di pezzi della produzione oggi completamente esternalizzata, talvolta anche per la prototipazione dei capi, la revoca dei contratti con gli opifici illegali in cui si 'addestrano' i lavoratori a mentire in caso di controlli delle autorità, la creazione di black list o l'inserimento di figure professionali che si occupano esclusivamente di "rendere più stringenti i presidi" sulla "catena di produzione".
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