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Lucano choc: "Odio lo Stato e vado contro la legge". Così i giudici lo hanno salvato
Ieri 13-12-24, 10:12
Altro che motivi umanitari: i giudici hanno salvato Mimmo Lucano stralciando le intercettazioni che sostenevano la condanna a 13 anni di carcere. L'escamotage è l'inutilizzabilità per un cavillo giuridico: il pm titolare delle indagini sul modello Riace aveva richiesto le captazioni per truffa aggravata, collegata alla sottrazione dei fondi dell'emergenza migranti, ma venuta meno l'aggravante, quelle conversazioni incriminanti non possono essere utilizzate come prova nel processo. È così che i giudici della Seconda sezione della Corte d'Appello di Reggio Calabria, presieduta da quella Olga Tarzia di Md che garantiva all'indagato «siamo con voi, sindaco», hanno fatto cadere la quasi totalità dell'impianto accusatorio, motivando l'assoluzione con la formula «il fatto non sussiste». E poco conta se è lo stesso sindaco, oggi eurodeputato di Avs, a vantarsi di essere un fuorilegge e di violare appositamente le leggi dello Stato, che ritiene ingiuste. Come, ad esempio, nella registrazione del 22 luglio 2017, quando aveva autorizzato il rilascio di una carta d'identità falsa a una nigeriana, tale Success Adekanye, che non solo non risiedeva nel Comune di Riace, ma era del tutto sprovvista del permesso di soggiorno, scaduto nel 2015, perché la sua richiesta di asilo e protezione era stata irrimediabilmente respinta. «Lucano, facendosi forte di quell'autorità incontrastata che egli riteneva di incarnare su quel territorio, decideva di rilasciare comunque il documento alla suddetta cittadina nigeriana», scrive il Tribunale di Locri che ha condannato il sindaco, «sia perché era deputato a sottoscrivere i documenti di identità, essendo il responsabile dell'ufficio anagrafe e di stato civile, sia perché aveva assunto la reggenza del Comando dei vigili urbani, per cui si sentiva di poter omettere ogni controllo sulla residenza della richiedente, considerandola residente in Riace, pur essendo un dato contrario alla verità». È Lucano a «confessare» senza mezzi termini quel reato. «Sono un fuorilegge io. Sono un fuorilegge. Perché io, per fare la carta d'identità, dovrei avere un permesso di soggiorno in corso di validità. In più lei deve dimostrare che abita a Riace... che ha una dimora a Riace», spiegava al suo assessore Maria Caterina Spanò, che si era presentata con la clandestina per capire come risolvere il problema. «Allora io dico così: non voglio mandare neanche i vigili», assicura Lucano, «mi assumo io la responsabilità e gli dico: "Va bene, va". Sono responsabile dei vigili, la carta d'identità, tre fotografie, all'ufficio anagrafe, la iscriviamo e gliela facciamo subito la carta d'identità... E proprio per... per disattendere queste leggi balorde, vado contro la legge un po', vado contro la legge». Insomma, lo stesso Lucano, come i giudici del primo grado, ammette la commissione del reato, ma per la Corte l'imputato «va assolto dal reato in esame, causa l'inutilizzabilità delle dichiarazioni della teste Carlino Carmelina». La Carlino è l'impiegata dell'Anagrafe che aveva osato opporsi pure all'emissione di un altro documento d'identità per il clandestino Jawad El Bahri, al punto da scatenare l'ira di Lucano contro la dipendente. «Io odio lo Stato italiano», aveva urlato il sindaco, dopo una serie di bestemmie per il comportamento dell'impiegata. Per la Corte, però, la Carlino non può essere considerata una teste, perché, nonostante si fosse inizialmente rifiutata a emettere il documento «avendone ravvisato la carenza dei presupposti di legge», scrive, «che poi abbia proceduto, compiendo quanto era rimesso alla sua competenza e alle sue funzioni, è circostanza che rende evidente il suo contributo partecipativo alla condotta oggetto di incriminazione di cui la firma del sindaco costituiva solo il momento terminale a conclusione del procedimento istruttorio retrostante e di manifestazione all'esterno della volontà dell'amministrazione». E pensare che per riscrivere il modello Riace e salvare il sindaco dalla galera, condannandolo esclusivamente per un falso relativo a una delle 57 delibere contestate in uno solo dei 19 capi di imputazione, la Corte si è dovuta prendere altri 90 giorni per il deposito delle motivazioni. Centottanta giorni, niente intercettazioni, il fatto non sussiste.
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