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Ma quale Papa italiano: fra risse e potere non ce ne saranno più. Il retroscena di Bisignani
Ieri 11-05-25, 10:12
Caro direttore, nemo papa in patria. Continuando così, non basteranno dieci Conclavi per far tornare un Pontefice italiano in «cattedra». E non sarà colpa della geografia, ma della geologia: la Chiesa cattolica italiana si è infatti «pietrificata» nel proprio provincialismo mentre il mondo correva altrove. Non è certo un caso che il porporato italiano più «pesante», Pietro Parolin – coadiuvato da un altro cardinale diplomatico di scuola silvestriniana, Beniamino Stella – sia stato il pope maker di Leone XIV. Al quarto scrutinio del secondo giorno, Parolin ha calato l'asso nella manica e Prevost, «battezzato» nelle Congregazioni Generali dal piemontese Versaldi, ha superato di molto i cento voti dei suoi confratelli. Il Conclave che ha eletto il primo pontefice statunitense non ha solo sancito la resa delle candidature italiane, ma la fine di un'epoca. Gli italiani, senza un progetto, una visione, senza un nome capace di unire, hanno alzato bandiera bianca. Francesco, del resto da parte sua, non ha mai nascosto il fastidio per la Curia romana e, più in generale, per la Chiesa italiana e, di fatto, ha smontato sia la rete di potere, sia quella di pensiero, di cultura, di governo. Ha trattato le grandi diocesi – Milano, Venezia, Palermo, Genova – come reliquie del clericalismo, lasciandole per anni senza cardinali. Solo Napoli, Firenze e Torino hanno ricevuto la porpora in extremis. Ma troppo tardi: il sistema era già annichilito, con vescovi custodi del nulla e funzionari passacarte. Il metodo è stato spietato: punire uno per ammonire tutti. Il caso Becciu è la parabola perfetta. Colpito, umiliato, processato con Francesco sempre vigile nel negare sia la misericordia che il garantismo. Il processo si è rivelato un'operazione più politica che giudiziaria. Il messaggio era chiaro: chiunque emerga troppo, o abbia seguito o carisma, verrà neutralizzato. È stato il gesuitismo applicato al governo della Chiesa, con buona pace del Vangelo. D'altronde, l'Italia ecclesiastica ha sempre avuto il vizio di dividersi proprio quando serviva compattezza. Basta ripercorrere i Conclavi del secolo scorso per vedere lo schema ripetersi: il duello tra Giuseppe Siri e Giovanni Benelli nel 1978 finì per spalancare le porte a un outsider veneto, Papa Luciani. Nel 2005 e nel 2013, la contrapposizione tra Angelo Scola e Tarcisio Bertone – pur espressione della medesima linea ratzingeriana – finì per annullare entrambi, e venne Bergoglio. Ora, nel 2025, Zuppi e Parolin, eredi di una scuola nobile che da Tardini arriva a Silvestrini e Casaroli, si sono vicendevolmente neutralizzati. Troppo diversi nei percorsi – Sant'Egidio per Zuppi, diplomazia per Parolin – per convergere davvero. Il risultato? Ha prevalso Prevost, americano, della medesima linea, ma senza le zavorre italiane. Intanto, al posto dei Martini, Biffi, Ruini, Pappalardo, Piovanelli, si sono insediati vescovi senza spina dorsale, preti da marciapiede fedeli alla linea ma orfani di pensiero. Anche in Curia l'Italia è sparita: scomparsi i Casaroli, i Silvestrini, i Sodano, gli Angelini. Gli architetti della diplomazia vaticana e del dialogo globale sono stati sostituiti da tecnocrati senza orizzonte. Così, quando si è aperto il Conclave, nessun italiano aveva il physique du rôle per ambire davvero al soglio di Pietro. Parolin troppo prudente, Zuppi troppo di corrente. Il colpo decisivo per lui è arrivato dalla Comunità di Sant'Egidio, gruppo apparentemente popolare, in realtà tra i più elitari della Chiesa. Nessun peso in Conclave: né la cena di Riccardi con Macron né il populismo studiato di Zuppi hanno convinto. Forse pensava di contare sul suo carisma di frate francescano per ottenere il consenso dei suoi confratelli provenienti dagli ordini e congregazioni religiose – quasi la metà dei votanti. Pierbattista Pizzaballa, troppo isolato, ha pagato anche la sua eccessiva apertura verso i palestinesi, sgradita perfino a molti arabi moderati, preoccupati dalle pazzie di Hamas, e ancor più ai drusi. I quali sì, hanno votato un frate, ma non lui. Sul fronte dei preti diocesani, i più citati – Gugerotti, Semeraro, Gambetti, Repole – erano figure rispettabili, ma rivelatesi incapaci di creare consenso. Divisi in cordate – curiali, movimentisti, metropolitani – i cardinali italiani si sono annientati da soli. Sant'Egidio ha spinto Zuppi con una mano, e con l'altra ha affossato Parolin, reo di rappresentare quella diplomazia che non si lascia catechizzare. CL, come sempre, ha diffidato di tutto ciò che odorasse di sinistra ecclesiale. L'Opus Dei, ancora tramortita dal declassamento giuridico firmato da Francesco, non aveva un cavallo vero da lanciare. E sebbene Villa Nazareth abbia prodotto due papabili di peso, Parolin e Gugerotti, è vero che nessuno dei due ha scaldato davvero gli animi della Sistina. Zuppi comunque ci ha creduto fino all'ultimo. Parolin, elegante e sobrio, ha capito solo last minute di non essere più candidato, ma grande elettore. Pizzaballa, patriarca di Gerusalemme, era più evocato che invocato, una cartolina francescana da conservare, non da votare. La verità è che la Chiesa italiana non è solo divisa, è debole. Non forma più menti pensanti. I seminari sono deserti, i collegi – una volta fucine di classe dirigente, come l'Alberoni di Piacenza – oggi sono gusci vuoti. Le Università Pontificie come la Lateranense e Propaganda Fide, e le loro grandi scuole di diritto e missiologia, sono state sistematicamente demolite, per ordine di Papa Francesco, da focolarini convinti che il Vangelo abbia, come la sharia, solo i diktat – soprattutto quelli della loro fondatrice, Chiara Lubich. Il clero non studia più, non scrive, non elabora. L'azione pastorale si è dissolta in un associazionismo sterile. La rappresentanza cattolica è sparita: nessuno sa più chi siano i presidenti delle Acli, dell'Azione Cattolica, dei medici cattolici. La Chiesa non ha più voce né presenza nel dibattito pubblico. I vescovi non contano, le parrocchie arrancano, le chiese si svuotano. Il Conclave ha premiato chi ha saputo parlare al mondo. Gli americani, spinti da Dolan e Burke, hanno votato compatti, gli africani hanno seguito, l'Asia ha acconsentito. Gli italiani hanno fatto quello che sanno fare meglio: si sono puniti a vicenda. E ora? Zuppi torna a Bologna, Parolin al suo protocollo, Pizzaballa a Gerusalemme, dove almeno le guerre sono dichiarate. Sant'Egidio minimizzerà, CL continuerà a diffidare, l'Opus Dei mediterà in silenzio. I focolarini continueranno a espandere la loro presenza negli snodi del potere vaticano, facendo finta di essere gioiosi e disinteressati, sperando che anche Papa Leone XIV ci caschi. L'Italia deve ritrovare una voce unitaria, profetica e credibile in una figura libera dai giochi romani, capace di parlare a tutta la Chiesa. Ma oggi, l'Italia fornisce ancora i muri, non la voce della cattolicità.
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