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Matteo e la Leopolda di lotta e di governo
Oggi 05-10-25, 15:28
Rieccolo! La politica italiana vive di molti leader che ricompaiono quando in troppi li davano per spacciati. Nella Prima Repubblica quel ruolo fu dell'aretino Amintore Fanfani: più volte presidente del Consiglio e del Senato, ministro nove volte, sempre capace di tornare sulla scena anche dopo sonore sconfitte, come quella sul referendum per il divorzio. Professionista del ritorno, maestro del tempo politico, l'uomo che conosceva l'arte dell'attesa per poi colpire. Oggi c'è un altro toscano in quel ruolo: Matteo Renzi. Primo segretario del Pd nato dopo la caduta del Muro di Berlino, enfant prodige che, a soli 39 anni, conquistò Palazzo Chigi con la promessa di rottamare la vecchia guardia. Da allora, per almeno cinque volte è stato dato politicamente disperso: alle primarie del 2012 vinte da Bersani, dopo l'autotonfo del referendum del 2016 con le coerenti dimissioni da premier, dopo la scissione dal Pd, dopo i flop elettorali di Italia Viva, dopo le inchieste che hanno sfiorato lui, la sua famiglia e i suoi collaboratori. Ogni volta archiviato, ogni volta tornato. Renzi, come Fanfani, conosce solo la parola keep trying, come direbbero gli americani che tanto frequenta. Jobs Act, flat tax sui «Paperoni», Buona Scuola, riforma della PA, unioni civili: ha fatto molto, lasciando segni profondi e qualche ferita aperta. Ha provato a riscrivere la Costituzione, ma senza successo; ha fatto cadere governi che sembravano blindati; ha aperto partite che nessuno aveva il coraggio di giocare; ha costretto interi schieramenti a ridefinirsi solo per contrastarlo. Persino Mario Draghi deve a lui la sua salita a Palazzo Chigi: Renzi gli aprì la strada, salvo poi scoprire che i consigli fallaci del professor Giavazzi erano più rassicuranti di quelli dell'ingombrante sponsor politico. E poi c'è il suo tratto spiccatamente berlusconiano. Silvio lo osservava con un misto di sospetto e curiosità: vedeva in lui una versione giovane di sé. Renzi lo rottamava nei comizi e lo corteggiava nelle stanze. Il Patto del Nazareno fu l'accordo che spiazzò i puristi della politica, ridisegnò le alleanze e avrebbe potuto tirare fuori l'Italia dalle secche. Poi la rottura feroce sul Quirinale: Renzi puntò su Sergio Mattarella, del quale, confessò poi candidamente, non aveva nemmeno il numero di telefono. Da allora, con il Cav, solo diffidenza e gelo, benché il fato li accomuni. Entrambi percepiti come corpi estranei al sistema, martellati dalle procure, trattati come micce da disinnescare. In Italia, chi corre troppo avanti finisce sempre sotto tiro. Accadde a Fanfani, a Berlusconi ed è accaduto a Renzi. Troppo giovane, troppo rapido, troppo sveglio per non attirare sospetti e invidie. Le sue relazioni internazionali hanno alimentato diffidenze bipartisan: a Washington ha legami con think tank e fondazioni; a Parigi è interlocutore stabile di Emmanuel Macron; a Riad e Abu Dhabi ha costruito per primo rapporti con Mohammed bin Salman e con i vertici economici del Golfo, aprendo le porte a tante aziende. Una rete così estesa da spingere Giorgia Meloni a cucirgli addosso una legge ad personam per colpire i suoi compensi da conferenziere: peccato che lui fosse già altrove, evitando di trasformare l'arma in tallone d'Achille. A garantire l'equilibrio interno ci ha pensato Maria Elena Boschi. Dieci anni tra ministeri e sottosegretariati l'hanno trasformata in una parlamentare ascoltata e rispettata, capace di custodire il focolare del partito mentre lui giocava la partita globale. Un tandem perfetto: lui statista internazionale, lei reggente quotidiana a Roma. Nel frattempo, il Pd implode sotto la guida barricadera di Elly Schlein, la quale sembra non ricordare la massima di Lenin secondo cui «l'estremismo è la malattia infantile del comunismo». La «svolta Leonka» con i maranza di piazza ha fatto gelare non solo Mattarella, ma anche i suoi sponsor interni, da Zingaretti a Orlando a Franceschini. E se la rincorsa a Landini e alla Cgil ha allontanato il ceto medio moderato, l'appiattimento sui 5 Stelle ormai in caduta libera ovunque ha fatto il resto. Risultato: l'ennesima corrente che nascerà il 24 ottobre a Milano, i «Nuovi riformisti» di Guerini, Margiotta, Gori, Picerno e Quartapelle, proiettati verso un centrismo pro-Europa e benedetti dal solito conte Paolo Gentiloni (con un occhio fisso a Palazzo Chigi come «Giuseppi» Conte o, ancora peggio, al Quirinale). Il segno plastico di un partito allo sbando. Ed è in questo spazio che Renzi fiuta l'occasione. La sua nuova scommessa si chiama Casa Riformista: sindaci e amministratori locali radicati nei territori. Non un esperimento effimero, ma un progetto che parte dal basso per costruire un'alternativa politica al Pd in crisi. Dopo la batosta elettorale nelle Marche e la sconfitta annunciata in Calabria, i dem appaiono sempre più fragili, incapaci di attrarre la borghesia imprenditoriale e il ceto medio. A Renzi ora basta un pertugio politico: ci si infila senza la fanfara di un tempo, diventando così ancora più insidioso. Casa Riformista è la messa in pratica di una lezione che Matteo ha imparato bene: non più partiti personali, basta risse da talk show, ma un progetto che chiama a raccolta chi non si riconosce né nel radicalismo identitario della Schlein né nel populismo grillino e per questo non va più a votare. L'astensionismo oggi è la maggioranza nel Paese. C'è un centro terra di nessuno: Forza Italia orfana di Berlusconi, la Lega in affanno, Fratelli d'Italia sempre più «partito-Meloni» e i 5 Stelle senza più credibilità. In mezzo, lo spazio che Renzi vuole occupare: con la tenacia del sopravvissuto, l'ambizione del fondatore e l'intelligenza e il grande network internazionale che tutti gli riconoscono. Il parallelo con Fanfani e Berlusconi diventa così sostanza. Fanfani costruì il welfare del Dopoguerra, Berlusconi incarnò il sogno imprenditoriale degli anni Novanta, Renzi non più il rottamatore ma costruttore di una nuova appartenenza riformista di centro che dia stabilità. Tre figure divisive, irriducibili, mai disposte al silenzio. Politici con la P maiuscola, che non si accontentano di finire nei manuali come figure scialbe. Fanfani la praticò per decenni, Berlusconi fino all'ultimo respiro, Renzi continua a farlo oggi con la stessa ostinazione. E la sua creatura, la Leopolda, giunta alla sua 13ª edizione, lo conferma. Intellettuali, rettori, sindaci - Silvia Salis, Beppe Sala, Gaetano Manfredi, Roberto Gualtieri - assessori di peso come il romano Alessandro Onorato; il 20 ottobre riunisce centinaia di «civici» che arriveranno a Roma da tutta Italia. Per la Coldiretti c'era Ettore Prandini (a Lollobrigida hanno fischiato le orecchie), tanti imprenditori e persino il ritorno di molti big del Pd che si sono confrontati con centinaia di giovani. Anche il governo era presente con tre ministri di serie A come Crosetto, Piantedosi – accolto con standing ovation – e Valditara (solo un caso?). Leopolda di lotta e di governo. E ben vengano i «rieccoli».
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